Spesso viviamo uno strano pudore verso i nostri affetti, esterniamo con fatica l’amore e l’affetto che proviamo per le persone a cui vogliamo bene. Sopiamo, a volte inconsapevolmente a volte no, l’espressione dei nostri affetti, come qualcosa che si debba manifestare con cautela e moderazione. Talvolta si tratta di parole non dette, di dichiarazioni di amicizia che restano sulla lingua, di apprezzamenti che nascono nel cuore ma non giungono a destinazione. Altre volte sono i nostri gesti che vengono inibiti: abbracci non scambiati, strette di mano date con poca convinzione, un tocco mancato, uno sguardo non incrociato.
Spesso ci autolimitiamo per paura della reazione dell’altro: temiamo che questa manifestazione di affetto possa giungere come una indebita invasione di campo; temiamo di imbarazzare l’amico, di metterlo in difficoltà, di ferire la sua sensibilità. Penso tuttavia che il motivo principale sia legato al fatto che, quando manifestiamo agli altri i nostri sentimenti, ci mostriamo vulnerabili, fragili; ci esponiamo al rischio che questo nostro gesto di amicizia possa non essere corrisposto. Perdiamo così la nostra posizione di controllo e potere e ci offriamo alla libertà dell’altro e alla sua decisione. Ci mostriamo semplicemente “umani”, bisognosi di dare e ricevere affetto, riconoscimenti ed apprezzamento.
In effetti questo scambio di affetti richiede di avere maturato un senso profondo ed equilibrato di sé, la consapevolezza del proprio valore e l’accettazione serena delle proprie fragilità. È solo avendo raggiunto questo “benessere con se stesso” che potremo vivere un sbilanciamento verso l’altro, senza la paura che tale movimento destrutturi chi siamo o metta in crisi la nostra identità.
Dire (non solo a parole) il nostro affetto, nonostante quello che può apparire, non è cosa semplice né banale. Eppure credo che non esista esperienza più ricca di umanità del dire e del sentirsi dire da qualcuno, sia esso il partner, il figlio e un amico, “ti voglio bene”.
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