C’è una gioia nell’essere padre che difficilmente si riesce a spiegare a parole: è un sentimento intenso, inebriante, un movimento che ti porta su vette che non avresti mai pensato di poter raggiungere, su alture talmente irraggiungibili che forse solo chi l’ha vissuto riesce a comprendere. Non so se vi sia esperienza più radicalmente ed pienamente umana della paternità e, per estensione immagino, della maternità. La generatività pone noi, poveri esseri mortali, in uno spazio divino nel quale la vita viene donata ed accolta in un dinamismo di generosità, eccedenza e grazia.
Eppure chi ha sperimentato l’estasi della filiazione, credo ne conosca pure il suo risvolto più duro ed esigente, l’aspetto più aspro e indigeribile. Essere padri è una gioia che, allo stesso tempo, ti esalta e ti crocifigge, ti onore e ti umilia, ti inebria e ti deprime.
Per Levin quello era il primo figlio, il suo primogenito, avuto con la donna che da sempre amava. La sua vista, tuttavia, le apparve meno dolce di quello che aveva sognato, meno coinvolgente e gradevole. Racconta Tolstoj al capitolo XVI (settima parte) di Anna Karenina: “Quello ch’egli provava per quel piccolo essere era proprio tutt’altra cosa da quello che si aspettava. Non c’era nulla di allegro e di gioioso in questo sentimento; al contrario, un nuovo senso di paura. Era la coscienza di un nuovo campo di vulnerabilità. E questa coscienza era così tormentosa nei primi tempi, il terrore che quell’essere impotente soffrisse era così forte, che proprio per questo non avvertiva lo strano sentimento di spensierata gioia e perfino di orgoglio ch’egli aveva provato proprio nel momento in cui il bambino aveva starnutito.”
L’orgoglio inziale, quello sguardo compiaciuto e spensierato che aveva accompagnato la prima vista del figlio, lascia qui il posto al terrore, giacché, come accade ad ogni uomo che diventa padre, la nascita del figlio è segnata dalla consapevolezza di una nuova ed invincibile fragilità, “un nuovo campo di vulnerabilità” come la descrive lo scrittore russo.
Di fronte a quel piccolo esserino inconsapevole e innocente, senti nelle tue viscere che si è venuto a creare uno spazio che, come il tallone per Achille, resterà perennemente vulnerabile, indifeso ed esposto. Quel corpicino paffuto e sereno porta con sé la promessa di una imperitura fragilità, di una eterna debolezza, di una impotenza che segnerà ogni giorno della tua esistenza. Chi è padre lo sa: non c’è modo di sbarazzarsene, di prenderne le distanze, di dimenticare o rimuovere. Nulla da fare! Non ci si abitua e non si attenua! Con quel figlio hai smarrito per sempre la tua giovanile innocenza e spensieratezza perché con esso è nato un nuovo te ed è venuto alla luce un nuovo mondo in cui tu e lui sarete per sempre legati.
Cantava Micheal Bolton: “Fathers and daughters never say goodbye”… già.. ti puoi congedare da tutto, persino dalla tua stessa esistenza, ma vi è un legame che supera il tempo e giunge a lambire i confini dell’eterno.









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