…e allora buon San Valentino!

Forse in altri tempi avrei storto un po’ il naso per la melassa sdolcinata che accompagna la festa di San Valentino: questa onda dolciastra di romanticismo mi ha sempre un po’ infastidito perché apprezzo una versione un po’ più sobria ed essenziale dell’amore. Ma ahimè non sono più “altri tempi” e quando osservo l’aria che tira in questa società depressa e dai desideri tristi, mi devo ricredere anche sulle festa di san Valentino.

Questo movimento celebrativo (e consumistico) dell’amore romantico ha comunque un aspetto positivo: ci costringe a parlare d’amore, di incontri, di sentimenti condivisi e di passioni comuni. Lo fa in maniera affettata e melliflua, inutilmente sdolcinata e sentimentale, ma quanto meno lo affronta. In una società che idolatra l’ “io”, la festa di San Valentino ci racconta di un “tu” che diventa un “noi”, di una possibile dimensione interpersonale, di legami che scaldano il cuore, di un soggetto che smette di fissare il proprio ombelico e guarda verso l’altro. Certo, lo fa cercando un piacere, una gioia, spesso in nome di un impulso un po’ troppo narcisistico; cerca ancora nel “tu” un riflesso del proprio “io”, ma in tempi come questi, anche il semplice gesto di alzare lo sguardo dalla punta dei propri piedi merita apprezzamento e incoraggiamento.

Stiamo vivendo un’epoca in cui siamo chiamati a reimparare la grammatica dell’umano, come se fossimo tutti caduti vittime di un’amnesia collettiva di secoli e secoli di cultura umanistica. Dobbiamo ripartire dall’ABC, ribadire l’ovvio, insegnare ciò che i nostri avi conoscevano a menadito e che noi stentiamo a comprendere. È tempo di semina: una semina generosa, appassionata e faticosa. Chissà, magari anche San Valentino può rappresentare l’occasione per gettare qualche seme nel cuore di questa umanità, ormai divenuta un terreno arido e incolto.

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