Talune esperienze portano con sé una certa dose di frustrazione; sono segnate da una distanza tra quello che ti aspettavi potesse succedere e quanto in realtà è successo. Capita di crearsi delle attese, delle aspettative sulle cose, sugli incontri e sulle persone; sono situazioni nella quali abbiamo fatto un grande investimento di tempo, affetti e speranze. Sfortunatamente ti accorgi che tutta questa attesa era mal riposta o del tutto infondata. Hai sbagliato a leggere gli eventi e ciò che si dimostrava promettente, alla prova dei fatti, non si è rivelato tale. La speranza è stata tradita, l’investimento sfumato ed il sogno è irrealizzabile.
Tutto questo genera sentimenti di frustrazione, una fastidiosa ed irritante presa di coscienza della distanza che intercorre tra le tue idee a la realtà “in carne ed ossa”. Il rischio è che alla frustrazione subentri il risentimento. Può diventare un facile alibi il dirsi “questa situazione non mi merita”, “tanto non mi interessava” o cose simili. Queste forme risentite, comprensibili ma un po’ infantili, testimoniano la difficoltà ad accettare il fallimento, il rifiuto e l’errore. Più facile sentirsi “geni incompresi” che il mondo non sa valorizzare…
D’altra parte la frustrazione è una grande maestra, ci obbliga ad intessere un rapporto sano tra reale ed ideale, ci sollecita ad esporci al rischio del fallimento e del rifiuto, in quanto elementi connaturali ad ogni impresa. Ci educa a vivere una (spesso dolorosa) obbedienza alle cose: non sono i nostri pensieri a guidare la realtà, semmai il viceversa. La frustrazione, se vissuta in maniera sana e non distruttiva, fa parte di quel processo di maturazione che ci porta ad allontanarci da ogni pretesa onnipotente per vivere una docilità alle cose, che è condizione imprescindibile di ogni azione efficace.
Possiamo fare “presa” sulla realtà solo nella misura in cui riconosciamo che questa realtà possiede una propria consistenza che chiede obbedienza.









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