vecchi e nuovi maschi

Le pagine di cronaca locale e nazionale di questi ultimi giorni sono state nuovamente riempite da racconti di abusi e violenze verso le donne: omicidi, stupri, minacce, aggressioni, prepotenze, soprusi fisici e psicologici. È uno spettacolo a cui rischiamo, ahimè, di abituarci, come fosse una rubrica fissa sulle pagine di cronaca nera, un fatto deprecabile ma socialmente tollerato come un male a cui non c’è rimedio. Il rischio è quello, appunto, di derubricare questi fatti a un problema di ordine pubblico, un crimine da contrastare solo con operazioni di polizia e con il ricorso alla giustizia. Questo è senza dubbio necessario e essenziale ma, così facendo, si affronta la questione solo nella sua manifestazione esterna, disconoscendo le radici culturali assai più profonde e problematiche.

Penso che la questione in gioco in questa tipologia di volenza sia essenzialmente il tema dell’identità maschile: lì occorre indagare se vogliamo tentare almeno di capire cosa sta accadendo; su quel punto occorre riflettere per comprendere i legami, talvolta impliciti ma essenziali, che vincolano la brutalità di certi atti con l’immagine che i maschi hanno maturato nel corso del tempo della propria identità e del proprio ruolo personale e sociale.

Il mondo femminile, nei decenni del dopo guerra, è stato protagonista di un lungo e complesso processo di emancipazione che lo ha portato a riflettere e problematizzare il ruolo della donna nella società contemporanea, tentando una comprensione di sé che, per quanto segnata da esiti assai diversificati, ha rappresentato un punto di importante maturazione e presa di coscienza. Il mondo maschile, invece, non ha condotto questo passaggio critico e maturativo: nella cultura occidentale il maschile si è di fatto identificato con l’umano tout court, pretendendo di rappresentare la totalità dell’esperienza umana. Se ci pensate anche la lingua, quella italiana ma, alla stessa stregua, molte altre, non ha aiutato in questo senso: il genere maschile è sia il genere di una parte sia il genere del tutto, tanto che la parola “uomini” non solo definisce coloro che appartengono al sesso maschile ma anche l’insieme di tutte le donne e gli uomini. La maschilità si è sempre percepita come il rappresentante del tutto e come la pienezza della esperienza umana: in fondo essere maschi ed essere pienamente uomini per molti secoli sono due esperienze che si sono pienamente sovrapposte. Dal momento che il maschio esprime la totalità dell’umano, esso non ha mai sentito il bisogno di ragionare e di problematizzare la propria “parzialità”, i proprio tratti costituitivi, gli elementi fondativi della propria identità. Da questa posizione privilegiata ne è derivata una idea del maschile come ciò che è direttamente connesso all’idea di potere, dominio, autorità, controllo, competizione e gerarchia. Tornando al fatto linguistico non è banale notare come tutti i termini che esprimo potere e dominio sono coniugati al maschile, lasciando al genere femminile quelli più legati alla subalternità e all’obbedienza. In altre parole, il mondo maschile ha poco coltivato il pensiero della differenza, della reciprocità e della relazione.

La modernità, con l’affermarsi della reciprocità dei sessi, ha costretto, come sostiene Luce Iregaray, a ripensare il mondo a partire dalla differenza e da quella particolare forma di differenza che è la differenza sessuale, che, per la filosofa belga, è la radice di tutte le differenze che abitano l’umano.

In questo cambio di paradigma, in cui la pienezza dell’umano sta non più nella monoliticità del maschile ma nella reciprocità dei generi, il mondo maschile si è trovato non solo impreparato e disorientato, ma pure vittima di una radicale esperienza di frustrazione: frustrazione per il ruolo perduto, per il potere sottratto, per quella centralità ormai non più tale, sia in campo sociale, che politico, culturale e religioso. L’universo maschile si trova oggi a fare i contri con questa crisi di identità che la fine della cultura patriarcale ha accentuato e accelerato: se essere maschio non significa più essere forte, potente, dominante, allora cosa significa? In cosa consiste il ruolo e l’identità simbolica, sociale, emotiva, relazione del maschio?

Mi chiedo se le forme di violenza e le dinamiche di sopraffazione contro le donne in fondo non si alimentino, oltre che da un contesto socio-culturale povero e immaturo, anche da questo disorientamento culturale e simbolico dell’immagine maschile: come accade anche in altre situazioni e contesti, la violenza rischia di essere il modo brutale e disumano con cui si riempie un vuoto di parola, di pensiero e di riflessione. Una cosa mi pare interessante sottolineare: oggi la riflessione filosofica sta tendando di avvicinare questi interrogativi legati all’identità del maschio a partire da quelle che vengono definite le maschilità marginali e plurali, ossia quei modelli di maschio che si trovano a fare i conti con la fragilità, l’esclusione, la cura, l’emotività, la leggerezza e l’irrilevanza. Che sia proprio dalle “periferie dell’umano”, dai sobborghi dell’esistenza, dai margini dell’istituzione che possono giungere parole nuove per raccontare quella complessa e faticosa esperienza che è l’essere maschi?

Pubblicato su Il Cittadino del 20 Giugno 2023

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