I fatti di cronaca ci hanno drammaticamente riproposto una serie di episodi di mancanza di rispetto, se non addirittura di violenza, verso le donne, in questi caldi giorni di fine estate: i casi più angosciosi riguardano i recenti stupri di gruppo a Palermo e a Napoli dove un gruppo di giovani (tra cui alcuni minorenni) hanno stuprato delle ragazzine ancora adolescenti. Ma ci sono anche avvenimenti, come dire, “minori”, in cui la brutalità è forse meno esplicita ma non per questo meno infida: penso al corpo della donna esposta su un tavolo da buffet, o ai tocchi inappropriati di alcuni allenatori di calcio, o ancora ad alcuni cartelli sventolati in una discoteca di Firenze. Certo, non si può mettere tutto sullo stesso piano, la violenza carnale con il comportamento apparentemente goliardico, tuttavia se proviamo ad uscire dalla cronaca spiccia e tentiamo una riflessione un attimo più distaccata o pacata forse ci potremmo accorgere che c’è un filo rosso che lega tutti questi episodi, un terreno comune in cui essi germinano ed una cultura assai diffusa che li alimenti e li giustifica.
Il tema non è solo quello del corpo femminile, considerato come un oggetto di cui godere illimitatamente, come uno strumento del piacere maschile, come ciò che può essere usato e gettato senza problema. La questione non è solo il ruolo e la visione della donna che ancora persiste nella nostra cultura e nei nostri ambienti sociali, politici, civili ed ecclesiali, ma anzi, e forse prima di tutto, il senso che diamo alla nostra pulsionalità. Credo che questi fatti eclatanti siano solo la punta dell’iceberg di una sensibilità assai più diffusa di quanto si possa pensare e che provoca non solo il fatto terribile di cronaca ma pure anima i comportamenti più abituali e quotidiani di noi tutti, l’ethos collettivo e la percezione che abbiamo di noi stessi e degli altri.
Vi è l’idea che l’uomo sia abitato da una pulsionalità animale che risulta essere incontrollabile e pervasiva. L’appetito, di qualunque natura, sia esso legato al cibo, affettivo o sessuale, richiede un’immediata e pronta soddisfazione, un appagamento che non conosce dilazioni o ritardi. La frustrazione del desiderio è qualcosa di intollerabile, così come il differimento dell’impulso o la sospensione del bisogno. Questa istintualità non è soggetta ad alcuna progettualità, non viene incanalata in un significato per l’esistenza, non è gestita in un orizzonte complessivo del vivere. Tutto deve essere soddisfatto ora, qui, subito: ogni istinto, ogni pulsione, ogni impeto o moto. Il solo modo di onorare un impulso è darne immediato appagamento: non ci sono altre strategie.
C’era, o forse c’è, una parola che la tradizione aveva individuato per rendere l’istintualità animale che ci abita un fatto umano, un dato sensato e non distruttivo: è la virtù della temperanza. Essa non ha nulla a che fare con la mortificazione, la castrazione del desiderio, la rinuncia all’esercizio delle passioni o delle pulsioni. La temperanza non è roba per asceti o gente che fugge disgustata dal mondo. Essa è la capacità di controllo e dominio di quello che sentiamo, di ciò che muove le nostre viscere, che imprime uno stimolo al nostro corpo. Essa è un esercizio di libertà perché ci consente di non restare schiavi di quello che sentiamo ma ci dona la capacità di integrarlo ed armonizzarlo nella nostra esistenza, accettando anche la fatica del differimento o della frustrazione, in nome di una bene più grande e duraturo. Esercitare la temperanza non significa essere meno uomini ma meno bestie, meno animali in preda a pulsioni che ci rendono vittime di noi stessi. Essere temperanti ci educa alla consapevolezza di chi siamo, delle nostre scelte, del nostro progetto di vita; ci abilità a custodire la nostra umanità in maniera piena e appagante; ci provoca ad essere persone riconciliate e serene, radicalmente libere in quello che pensano, che sentono e che provano.
Pubblicato su Il Cittadino del 29 Agosto 2023









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