Il giovane è salito in una stazione intermedia tra la mia e quelle di Milano, non so esattamente quale: ogni mattina il treno carica e scarica pendolari ad ogni fermata e difficilmente si tiene il conto di chi arriva e chi parte. La mia attenzione viene attirata quando sento due persone parlare inglese davanti alla porta della carrozza, in quello spazio di accesso che ospita di solito coloro che non trovano un posto a sedere.
Il giovane è in compagnia di un suo coetaneo di colore con il quale scambia vivaci battute nella lingua madre di quest’ultimo. Il giovane è sulla ventina, vestiti da lavoro e una felpa multicolorata con un cappuccio per la testa. Non ha alcuno zaino con sé, il che mi fa pensare che non si tratti di uno dei tanti studenti che viaggiano verso Milano. Parla un inglese fluente, spiccio, ricco di slang e di quel gergo giovanile che usa l’intercalare “fuck” ogni tre parole. Comprendo da alcune battute che il giovane è stato a San Francisco e sta condividendo con il compagno di viaggio alcune considerazioni sull’esperienza. L’altro replica in modo vivace, spesso alzando la voce, con quelle vivacità che hanno i ragazzi africani, poco abituati all’aplomb di noi europei. La conversazione procedere allegra fino alla fermata che segna la separazione dei due: il ragazzo di colore scende mentre l’altro prende posto su un sedile lasciato libero.
In questa uggiosa mattinata di inizio autunno, mi colpisce la padronanza e la fluidità del giovane italiano nel conversare in inglese: sa comprendere quello che l’amico gli dice spesso in modo un po’ scomposto ed superficiale, sa rispondere a tono con battute pronte, un frasario giovanile ampio, capace di intendere e di farsi intendere dall’amico che, noto, non semplifica la comunicazione anche se parla con uno “straniero”. Insomma trovo affascinante questa conversazione fatta alle otto di mattina sul treno verso Milano, non solo per le competenze linguistiche ma soprattutto per l’intesa che si crea tra i due ragazzi. Si guardano e paiono intendersi, come se fossero amici da molto tempo.
Penso che in fondo parlare la lingua dell’altro non ha solo una funzione strumentale ma possiede anche una valore emotivo ed empatico: quando il giovane parla la lingua dell’amico in realtà sta pure entrando nel suo mondo, sta creando connessioni con lui ed attivando contatti. La lingua ha a che fare con la possibilità di scambiare informazioni ma essa possiede un intrinseco valore identitario: parlare significa comunicare, ma pure esprimere se stessi, dire di sé, raccontare il proprio vissuto. Ecco quindi che il giovane, capace di parlare una lingua non sua, è come se lanciasse un ponte verso l’altro, come se sposasse il suo punto di vista, come se cercasse di raccontare il mondo con le parole che l’altro conosce.
È forse per questo che trovo così avvincente parlare una seconda lingua ed imparare un nuovo idioma: essa ti permette di osservare il mondo da un punto di vista che prima non conoscevi.









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