Una vittoria del bene contro il male: sono questi i termini che ieri sera il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha usato nel suo discorso alla nazione per giustificare l’attacco alla striscia di Gaza. Il bene contro il male… sono forse queste le parole da cui dobbiamo tutti, da qualunque parte ci schieriamo, stare lontani in questi giorni. Non stupiscono queste parole, sono tipiche di ogni guerra e di ogni conflitto. Sono le stesse locuzioni che Hamas ha usato contro Israele: quando l’odio monta e offusca la ragione, non è strano ascoltare questi toni apocalittici, definitivi, risolutori e radicali.
Il punto è che non esiste alcuna battaglia del bene contro il male, nessuna lotta tra forze universali, nessun confronto tra valori assoluti, ma lo scontro duro e violentissimo in cui si oppongono, da una parte e dall’altra, giuste ragioni, numerosi torti, moltissime incomprensioni e drammatici errori. Chi è amico di Israele o del popolo palestinese dovrebbe sforzarsi di cambiare il vocabolario in uso: le parole hanno un peso ed influenzano le scelte e le prospettive sulle cose.
Credo che in una certa misura sia comprensibile l’uso di questi toni: in guerra si dice di tutto. Ma chi è chiamato a restare giustamente terzo rispetto a questo conflitto ha il dovere di moderare i vocaboli e abbassare i toni. Temo che certe tifoserie da entrambe le parti non facciano il bene del contendente a cui intende dare supporto.
Se entriamo in una logica del “bene contro il male” siamo finiti: non esiste possibile mediazione, nessun ascolto, nessun riconoscimento, nessuna possibilità di una intesa. Il male per definizione deve essere annientato affinché prevalga il bene. Se Israele o Hamas sono il male, la guerra e l’annientamento dell’altro restano la sola opzione in campo.
Per questo credo che chiunque voglia il bene (anche solo di una delle due parti in lotta) abbia l’obbligo di usare un vocabolario diverso, che lasci un spazio, seppur minimo, alla possibilità di un accordo. Cambiare vocabolario non è un atto di gentilezza politica o di bon ton diplomatico: è un modo per tentare un minino e parziale riconoscimento del punto di vista dell’altro, del suo diritto di esistere e della sua legittima ricerca di pace.









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