“Dai, facciamoci un selfie!”: non è questa la frase che compare sempre più frequentemente sulle nostre labbra negli ultimi tempi? Talvolta è per un incontro, un pranzo, un concerto, una festa, un evento, una cena; altre volte non serve neanche un’occasione o un motivo: magari è solo una passeggiata o una chiacchierata tra amici. Fatto sta che il selfie è sempre lì a incorniciare i nostri momenti, a raccontare quello che ci accade, ad immortalare gli istanti della nostra esistenza. Pare addirittura che senza un selfie che catturi l’evento, la vita sfugga, si sciolga tra le nostre mani, perda consistenza e memoria. Ogni momento importante della nostra vita, che sia privato, intimo o pubblico merita un selfie, necessita di uno scatto che, attraverso i social, testimoni al mondo che ci siamo.
Penso che la funzione del selfie sia esattamente questa: attestare una presenza, dichiarare un’esistenza o testimoniare un’esperienza. È come se dicessimo: “Eccomi! Ci sono! Sono vivo! Ho visitato questo posto! Ho incontrato questa persona! Sono stato a questa festa! Mi sono divertito! Sono in vacanza! Etc.”. Il rito del selfie ci racconta che, in definitiva, a nessuno di noi basta esistere, ma abbiamo tutti un radicale bisogno di riconoscimento e di rispecchiamento. Noi non siamo nel mondo come una pianta o un sasso: essi sono nello spazio senza alcuna aspettativa o prospettiva. Per l’uomo è diverso: noi abitiamo lo spazio ed in questa esperienza sperimentiamo il bisogno – radicale quanto il mangiare ed il respirare – di essere visti, riconosciuti, individuati ed accolti. Non c’è vita umana senza la soddisfazione, diversificata, polimorfa e molteplice, di questa sete vitale dello sguardo dell’altro.
Diciamo spesso che nessuno può vivere da solo, ed è vero, ma solitamente colleghiamo questa necessità dell’altro a cose materiali, al cibo, al trasporto, all’assistenza o alla cura. Ma vi è un bisogno, che forse sarebbe meglio chiamare desiderio, dell’altro che è assai più profondo ed elementare: è il bisogno dello sguardo dell’altro, della sua attenzione, del suo interesse. In una parola: del suo riconoscimento.
I selfi giocano esattamente a questo livello della nostra persona, in quell’istanza primordiale che guida gli occhi di un neonato a cercare gli occhi della mamma. Il piccolo sa che egli esiste e che è un “io” primariamente grazie ad un “tu” con il quale si rispecchia.
Il punto, secondo me, è comprendere se davvero il selfie sia in grado di soddisfare questa fame e di dare risposta a questa domanda. Il selfie è uno stratagemma adatto per raccontare chi siamo e testimoniare la nostra presenza nel mondo? Non sono pochi gli esperti che ci mettono in guardia da una pratica “estrema” del selfie come unico canale di rispecchiamento. Il motivo di questa perplessità è molto facile da individuare: benché il selfie ci dia l’impressione di una espressione libera ed autentica di noi stessi, esso possiede una sostanziale dose di finzione. Nel selfie difficilmente restituiamo all’altro il nostro io reale, preferendo mostrare quello ideale: ci piace far vedere come ci piacerebbe essere (sempre felici, sempre divertiti, in posti affascinanti, in luoghi interessanti…) piuttosto che come siamo realmente. Non solo: se ci facciamo caso, nel selfie i movimenti, le pose e le inquadrature sono spesso stereotipate, fatte secondo canoni precisi e ripetitivi. La nostra gestualità è “camuffata” dietro standard che assumiamo un po’ inconsciamente. Per non parlare dell’alto livello di erotizzazione dell’immagine (la persona è spesso in posizione ammiccanti ed avvenenti) che rispecchia anche in questo caso modelli e forme che vanno per la maggiore.
Senza voler assumere posizioni censorie e retrograde, occorre riconoscere, ed insegnare ai nostri figli, che il riconoscimento reale ed effettivo di sé stessi avviene solo nella vita reale, nella concretezza e nella banalità dei nostri incontri faccia a faccia, corpo a corpo. Ci sentiamo profondamente riconosciuti quando il nostro volto incontra il volto dell’altro, magari con le sue rughe, le sue cicatrici, con le occhiaie evidenti e i capelli spettinati. È il corpo dell’altro che ci accoglie e ci abbraccia, nella sua nuda carnalità, il solo capace di restituirci la consistenza della nostra persona, il valore del nostro io e la permanenza del nostro essere. Continuiamo a farci selfie, a raccontare un pezzo della nostra vita sui social e a testimoniare la nostra presenza in questo mondo. Facciamolo però con la consapevolezza che, in fondo in fondo, stiamo facendo una recita che non sempre rispecchia chi siamo davvero.
Pubblicato su Il Cittadino del 27 Novembre









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