Mi è servito del tempo per ascoltare sui social il messaggio che il papà di Giulia Cecchettin ha rivolto alla figlia alla fine della cerimonia funebre: il solo pensiero di un padre, peraltro già vedovo, che rivolge le ultime parole alla figlia chiusa in una bara bianca lo sento, come uomo e come padre, un dolore troppo forte. Solo immaginare che tua figlia, stia lì, fredda e inerme, dentro una bara di legno, è qualcosa che la mente fatica ad accettare e il cuore non è in grado di sostenere.
Eppure, quando ho fatto partire il video della registrazione delle sua parole, confesso di aver provato un grande stupore e una grande consolazione: quell’uomo, distrutto dal dolore, annientato dall’accaduto, ha usato toni e parole di una grandezza straordinaria ed inarrivabile. Non mi riferisco tanto a quanto di sacrosanto ha affermato sulla violenza di genere, sulla responsabilità educativa di famiglia, scuola e media, o dell’appello fatto in primis a tutti gli uomini affinché rispettino l’altra metà del cielo. Certo, quelle sono state parole bellissime e da scrivere a chiare lettere all’ingresso delle nostre scuole.
Mi hanno maggiormente colpito due aspetti del suo discorso. Anzitutto la dolcezza straziante e immensa con cui si è rivolto alla figlia, il racconto della sua persona, la testimonianza della sua bellezza interiore e del suo coraggio. La lucidità e la passione di un padre capace di parlare così della propria figlia defunta mi ha fatto accapponare la pelle. In questa vicenda di odio, segnata da moti di rabbia, vendetta, rancore, ascoltare la sensibilità ed il candore di quelle parole scalda il cuore e ci aiuta a recuperare quella dimensione di profonda umanità che talvolta rischiamo di smarrire. Dire parole di amore in un tempo così incattivito e violento, beh, solo gli eroi ed i santi lo sanno fare…
E poi, il secondo elemento, questo continuo parlare del noi: della nostra comunità, della nostra società, di noi maschi, di noi adulti. Quell’uomo avrebbe avuto tutte le ragioni, dopo quello che gli è accaduto, per chiudersi a riccio insieme alla sua famiglia, rintanarsi nella propria tana a leccarsi le ferite, chiudere il mondo fuori dalla porta di casa, dopo tutto quello che ha fatto loro patire. Invece no! Gino sente il bisogno e la passione della società, chiede che quella sua personalissima tragedia interpelli la comunità civile, che sia stimolo di crescita e di cambiamento. Gino non vomita il proprio dolore contro il mondo, non si chiama fuori, non si ritira schifato dalla socialità umana: la morte della figlia diventa lo spazio, dolorosissimo ed incomprensibile, di un nuovo impegno, di una responsabilità condivisa, di una nuova battaglia da combattere insieme.
Chiudere il suo ultimo messaggio alla figlia, come ha fatto Gino, parlando di amore, perdono e pace, testimonia quel seme di mistero che si cela nel cuor dell’uomo e rappresenta una piccola ma tenace fiammella che illumina il nostro duro cammino nelle tenebre della vita. “Io non so pregare, ma so sperare: ecco voglio sperare insieme a te e alla mamma, voglio sperare insieme a Elena e Davide e voglio sperare insieme a tutti voi qui presenti: voglio sperare che tutta questa pioggia di dolore fecondi il terreno delle nostre vite e voglio sperare che un giorno possa germogliare. E voglio sperare che produca il suo frutto d’amore, di perdono e di pace. Addio Giulia, amore mio.”









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