L’espressione è davvero eloquente e, a suo modo, anche molto raffinata, come d’altra parte il pensiero del suo autore: rabdomanti del Regno. Così Pierangelo Sequeri su Avvenire descrive i cristiani del terzo millennio. Il vocabolario definisce rabdomante colui che “possiede, o presume di possedere, l’arte di scoprire nel terreno la presenza di acqua, di metalli preziosi o di tesori nascosti”. Sicché, fuor di metafora, i cristiani sarebbero chiamati ad essere attenti ricercatori del Regno di Dio che avanza nella storia, perlustratori dell’Infinito, esperti di quei semi di Bene e di Pienezza che affiorano nelle pieghe nascoste del tempo.
Secondo il teologo milanese sarebbe questa, forse, la vera e più profonda identità della “Chiesa in uscita”, di quello stile ecclesiale che papa Francesco non cessa di additare alle comunità dei credenti e che tuttavia rischia di diventare uno slogan, un motto dietro il quale si perpetua il banale ripetersi delle cose di sempre. Il cristiano è “in uscita” se non cerca (solo) di estendere lo spazio della propria influenza “allargare la sua tenda familiare, invadere un territorio alieno, presidiare un avamposto di occupazione”. L’essere in uscita presuppone la disponibilità a lasciare i paramenti del sacro, i linguaggi per iniziati, le parole della societas christiana, per abitare gli spazi dell’umano, attraverso una “disseminazione di discepoli che siano all’altezza dei luoghi «dove si formano i nuovi racconti e paradigmi» (Evangelii gaudium, 74)”.
Mi pare centrale una osservazione che Sequeri enuncia e che, in verità, aveva già anticipato durante il suo intervento a Lodi in occasione del congresso eucaristico: “La Chiesa in uscita è quella che non impone l’ingresso nella forma cristiana ai miracolati dell’agape di Dio, che li afferra con la forza della sua guarigione, della sua consolazione, della sua speranza”. In altre parole, coloro che sono raggiunti dalla grazia di Dio non devono necessariamente assumere lo stile, le abitudini, i gesti e le parole (in sintesi la “forma”) della “nostra” vita cristiana. Non occorre diventare “come noi” per essere cristiani, non serve imporre modi e stili prestabiliti per il discepolato, ma è bene lasciare allo Spirito la libertà di inculturare il Vangelo nei nuovi orizzonti di senso delle nostre culture.
L’invito è quello a non preoccuparsi tanto di essere formatori dei “quadri ecclesiastici (ora anche laici) e delle loro capacità di reclutamento” bensì, appunto, “astuti e creativi formatori dei rabdomanti del Regno di Dio, che parlano disinvoltamente le lingue del posto”, gente disponibile ad abitare il mondo degli uomini, soprattutto in quei luoghi dove si prendono decisioni, dove si formano i valori e gli orientamenti, dove si incide concretamente sulla vita dei fratelli. Non paladini di antichi valori ma esploratori della presenza del Regno che sempre ci precede e ci sorprende.
La Chiesa in uscita è la Chiesa che smette di preoccuparsi delle proprie cose, delle proprie istituzioni, eventi, appuntamenti, iniziative, che cessa di essere centrata su se stessa ma accetta la fatica dello sbilanciamento, della perdita, della seminazione generosa e disinteressata.
Il modello sono quei mille incontri che il Maestro di Nazareth ha vissuto lungo il suo pellegrinare in terra di Palestina: sono incontri rigenerativi, curativi, che hanno dato pienezza di vita senza la preoccupazione di alcuna appartenenza, nessuna fedeltà imposta, nessuna condizione e vincolo. “I Vangeli dedicano la gran parte della loro memoria dell’evento che ha cambiato faccia alla militanza religiosa su questo pianeta, al racconto di questi miracolati, dei quali poi si perdono persino le tracce”. Il maestro non si è preoccupato di ingrossare le sue fila, (Sequeri fa notare che per la cura della sua comunità gli sono bastati una dozzina di uomini) ma di far germogliare il Regno di Dio nella concreta esistenza di chi incontrava, testimoniando un Amore talmente eccedente da essere per sempre. Forse partono proprio da questa fedeltà narrativa al vangelo i primi passi della Chiesa in uscita. Da lì sgorga quel movimento di sporgenza che ci colloca nelle profondità generative della vita.
Pubblicato sul Il Cittadino del 22 Febbraio 2024









Lascia un commento