Quando senti parlare oggi di Intelligenza Artificiale (AI) ti sembra di tornare indietro di qualche decennio quando Umberto Eco, descrivendo il fenomeno televisivo che in quegli anni stava pervadendo la comunicazione di massa, introduceva, per la prima volta in suo libro, le figure degli “apocalittici” e degli “integrati”. In fondo sono cambiati i tempi ma l’attesa del futuro è segnata dalle medesime speranze e paure.
Da una parte ci sono coloro che vedono nell’AI la panacea di tutti i mali, la realizzazione di un nuovo eldorado dove tutti i nostri problemi saranno risolti e grazie alla quale avremo la possibilità di abitare in un nuovo Paese del Balocchi in cui, come racconta Collodi, non si studia, non si lavora, si mangia ed è sempre domenica. L’applicazione dell’AI alla medicina, alla ricerca scientifica, alla cura dell’ambiente potrebbe in effetti rappresentare una svolta importante, forse decisiva.
Dall’altra parte ci sono gli apocalittici, ovvero coloro che vedono nell’avanzare delle nuove tecnologie la fine della cultura umana e l’avvento del dominio della tecnica sul sapere umano. L’idea che il computer possa sostituire l’uomo, che possa, come lui, pensare, imparare, migliorarsi e magari pure sentire e sognare, è in effetti una prospettiva che inquieta, perché immagina un mondo in cui l’uomo rischia di essere una presenza non necessaria e forse addirittura dannosa.
È difficile oggi valutare con obiettività le cose e dire quale direzione prenderà questa imprevedibile e brusca rivoluzione digitale. Tuttavia penso che questa irrisolvibile dialettica e queste opposte visioni rischiano, in qualche modo, di nascondere il punto secondo me essenziale della questione: quella di capire cosa sia l’intelligenza umana. Se fino a ieri la differenza tra l’uomo e la macchina consisteva nella capacità del primo di inventare, creare, imparare, esplorare nuovi campi del sapere, oggi pare che l’IA metta in crisi questo assunto, giacché pure la macchina è in grado di eseguire le medesime funzioni. Quindi si pone il tema: in cosa consiste l’intelligenza umana? O, più radicalmente, che cosa è la razionalità umana? Essa possiede una natura puramente computazionale, logica, matematica o essa sa incorporare queste capacità ma è in grado pure di trascenderle? Dove sta il tratto squisitamente “umano” della razionalità? In cosa consiste questa “ratio”, ossia la capacità di separare, misurare, calcolare e dividere? La razionalità del computer è capace di sostituire quella umana?
Forse la risposta a questa domanda – o per lo meno così a me pare – viene da uno sguardo più attento e profondo su quell’esperienza tipicamente ed esclusivamente umana che è l’abitare: solo l’uomo abita una casa, solo lui sa eleggere uno spazio come ambiente umano ed interpersonale. Quale razionalità muove le nostre case, le nostre comunità e le nostre città? Qual è la “regola” che governa la vita di una famiglia nei suoi gesti semplici ed elementari dell’esistenza? Penso ad un fatto tanto semplice quanto immediato: pensate alla “ratio” che una mamma utilizza nel distribuire il cibo che ha appena cucinato. Difficilmente essa possiederà un tratto “matematico”, equilibrato ed esatto. La sua giustizia, ossia la sua capacità di dividere in maniera equa, non si limiterà a garantire a ciascuno la dose necessaria di cibo, ma saprà tenere in considerazione gusti, inclinazioni, lo stato di salute, la capacità di digestione, la maturità del corpo e la disposizione dello spirito. In una parola ogni mamma distribuisce il cibo usando una razionalità che muove dal riconoscimento dell’altro come altro da sé e irriducibile alla sua comprensione. Fuor di metafora: la razionalità umana opera in quello spazio in cui l’altro emerge come un “altro io” che sfugge al controllo e dominio, alla piena trasparenza e comprensione. In ogni famiglia, in ogni rapporto o legame, la razionalità umana si esprime come la possibilità di vivere nonostante i conti non tornino mai, in un equilibrio che è spesso in perdita e disavanzo; essa diviene la capacità di convivere anche quando non si comprende a pieno, quando non è possibile “gestire” o contenere, in un movimento di fiducia e accoglienza che oltrepassa ogni logica matematica o principio formale di giustizia.
Un grande studioso diceva che Dio ha creato il mondo secondo le leggi della matematica ma l’uomo secondo le leggi della parola. È forse in questo “racconto umano”, capace di fare esperienza dell’incontro con un’alterità irriducibile da sé, che si esprime una “ratio” che sfugge al potere dei bytes.
Pubblicato su Il Cittadino del 5 Marzo 2024 (QUI)









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