I giorni sono ormai contati per maestro di Nazareth che intuisce che le cose non si stanno mettendo bene per lui a Gerusalemme. Tira una brutta aria, aria di violenza e di vendetta, aria da regolamento dei conti, aria da normalizzazione della situazione. È proprio pensando alla fine che rischia di fare che Gesù tira fuori dal cappello questa straordinaria metafora: “se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto”. Si tratta forse di una sorta di distillato della sua vita, quelle cose che si dicono quando si vogliono tirare le somme di fronte alla fine della propria esistenza. È una parabola potente, ricca, diretta, che centra il punto con millimetrica precisione. È il paradigma attraverso il quale il Figlio dell’uomo legge la propria vicenda terrena come a condensare in pochissime parole il senso di una vita, la direzione di tanti anni ed il nocciolo profondo della sua predicazione.
Leggendo questa frase forse comprendi che non si tratta solo del testamento di quell’uomo ma in quella dozzina di parole si raccoglie il cuore di ogni esistenza, il nocciolo rovente di ogni piccola o grande vita che è passata sulla terra. Che senso dare all’esperienza del limite, della fine, della conclusione di ogni cosa? Che significato assegnare alla propria morte, intensa non solo come l’atto definitivo ed irrevocabile della vita, ma colto anche nel suo divenire, nel suo accadere nelle piccole morti quotidiane, nei mille fallimenti, nei legami spezzati, in quei rapporti conclusi, quelle traiettorie interrotte, nelle mete tradite, nelle innumerevoli infedeltà, regressioni, deviazioni di strada? Che senso ha la morte e le mille morti che segnano la nostra esistenza, quelle cicatrici che dettano un confine, un limite, un perimetro dal quale non è possibile uscire?
Forse a questo dilemma esistenziale ed irriducibile è possibile dare due solo risposte: quella nichilistica e quella sacrificale. Non vedo altre alternative.
La prima vede nel limite la fine di ogni cosa, il termine della corsa, la definitiva chiusura di quello che è stato. Non c’è speranza, non c’è avvenire: tutto viene dal nulla e tutto finisce nell’oblio, come unico destino possibile dell’essere. La fine è la parola definitiva della vita, il suo sigillo tombale, il suo esito infausto. Ogni grande o piccolo limite altro non è che l’anticipazione e la premonizione di quello che è destinato ad essere.
E poi vi è una seconda opzione, certo più rischiosa, più ardua ed incerta, ma che accenna ad una possibilità, ad una opzione che invoca fiducia ed luce. È l’opzione che si lascia istruire dei ritmi perenni della natura, dai suoi cicli e dalle sue dinamiche più profonde. In questa seconda possibilità di lettura la morte non è la fine di tutto ma evento rigenerativo dell’essere, sola condizione che permette di passare dalla solitudine del chicco alla moltitudine del raccolto. Ogni limite possiede un potere generativo e vitale, certo non così evidente ad occhi che osservano solo la superficie delle cose. Il seme che imputridisce nell’umidità feconda della terra è un germoglio di nuova vita, una promessa di futuro, il segno di un nuovo cominciamento.
Quella vigorosa e prorompente similitudine del Maestro di Nazareth riporta le cose alla loro dimensione sorgiva e radicale: il limite è la cessazione di ogni viaggio o è il tramonto che invoca una nuova alba?









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