L’età post-moderna è segnata dalla “fine della grandi narrazioni”, secondo la celeberrima espressione di Jean-François Lyotard, filosofo francese del secolo scorso che con queste parole descriveva, in maniera sintetica, la condizione della fine della modernità. Con questa formula Lyotard voleva indicare che il nostro tempo è segnato dalla scomparsa di quei racconti che creavano una sorta di quadro di riferimento per il vivere. Se ci pensate, fino alla metà del secolo scorso, la religione, la politica, le ideologie, l’impegno sociale avevano offerto dei quadri complessivi di senso entro i quali l’uomo trovava una direzione alla propria vita. La filosofia marxista o illuminista, quella idealista o esistenzialista, la religione cristiana o la passione civile erano stati delle bussole per l’uomo e avevano costituito delle cornici valoriali entro le quali ciascuna persona poteva trovare significato e orientamento. Gli eventi cruciali dell’esistenza, il nascere ed il morire, l’amare ed il soffrire, lo sperare e il lavorare, mangiare e divertirsi, lottare e fallire, trovavano in questi “racconti” una loro, anche se problematica, collocazione, un posto sensato, o, quanto meno, un tentativo di giustificazione e spiegazione.
Il post-moderno nasce proprio nel momento in cui queste narrazioni vanno in crisi e l’uomo si trova a vivere sotto un cielo senza stelle, senza punti di riferimento, senza una meta o un senso generale. Non è che l’uomo post-moderno contesti questi quadri di riferimento: la contestazione segnerebbe comunque una loro rilevanza. I nostri contemporanei semplicemente ritengono che la domanda di senso sia una falsa domanda, un interrogativo da non porsi, una questione da rimuovere e da ignorare nella costruzione della propria identità personale. Privato di ogni orizzonte complessivo, mi pare che l’uomo contemporaneo viva la propria vita secondo la logica del godimento, della soddisfazione delle proprie voglie e pulsioni, slegate da ogni quadro valoriale che non sia il proprio io.
In questo contesto, onestamente un po’ sconcertante e desolante, la voce della Chiesa è rimasta una delle poche istanze di senso che oggi osano parlare dell’umano. Sebbene in una condizione di assoluta minorità culturale e sociale, la fede cristiana si ostina ad offrire all’uomo di oggi un “racconto” che cerca di orientare le direttrici di fondo della vita, di creare un panorama complessivo in cui le esperienze polverizzate dell’esistenza possano trovare un filo rosso capace di legare e armonizzare. In questo mondo sgrammaticato e irrazionale, la comunità dei credenti continua a insegnare una grammatica dell’umano che presume di indicare valori che sfuggono al gusto personale del piacere, che non si chiudono nell’esperienza solipsistica del godimento immediato e che non disegnano l’avvenire come un tempo carico di paure e calamità. Magari mi sbaglio ma non trovo altri attori sociali, di certo non la politica o le istituzioni, che ancora hanno la pretesa di spendere una parola sul senso del vivere e che tentino (che ci riescano poi non è scontato) di legare insieme passato-presente-futuro in un quadro quanto meno ragionevole e significativo.
Mi chiedo se le comunità ecclesiali siano davvero consapevoli di questo servizio che esse possono offrire alla comunità degli uomini e di questo compito che oggi esse possono esercitare nella grande socialità umana. Ho spesso l’impressione che prevalga una dinamica di ritrazione, di fuga, come un sottrarsi all’offrire ciò che di più prezioso ed unico esse possono dare all’uomo di oggi: un senso complessivo della vita. Mi chiedo se certa ritualità in fondo non nasconda una fatica ad abitare lo spazio pubblico della polis e a misurarsi con le tante parole che raccontano l’umano. Ritirati dentro i nostri cortili, sperimentiamo una timidezza ed un disagio per gli “spazi aperti” dove contano le ragioni e non le appartenenze. Non si tratta certo di fare nuovi adepti, né di riempire le chiese o di convocare le folle. Si tratta “solo” di abitare l’umano alla luce di una Parola capace di offrire spessore e profondità al vivere; si tratta di essere uomini che, in un mondo pluricentrico e plurale, testimoniano la bellezza di una vita ricevuta e donata; si tratta di indicare quella dimensione di alterità orizzontale e verticale grazie alla quale trova pienezza la vita degli uomini.
Pubblicato su Il Cittadino del 19 marzo 2024 (QUI)









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