lo scafale degli oggetti smarriti

Scrive Erri De Luca: «Allora ci si colloca nello scaffale degli oggetti smarriti, si aspetta di essere cercati di nuovo e si resta a occhi aperti di notte aspettando il passo di chi torni a reclamarci. Ma nessuno torna e dopo il giusto tempo si è di nuovo se stessi, sciolti dal possesso, liberi perché si diventa liberi dopo essere stati perduti..»

Quante volte nella vita ci siamo sentiti oggetti smarriti, gente perduta, vecchi arnesi che nessuno più vuole o considera! Quante volte ci siamo sentiti rifiutati, esclusi, abbandonati a noi stessi, gente lasciata appunto su quegli scafali che più nessuno guarda e che restano dimenticati in polverose soffitte.

Sentirsi abbandonati è un sentimento che, forse più di altri, appartiene in profondità alla nostra natura umana: ci siamo sentiti abbandonati quando uscimmo dal ventre di nostra madre, abbandonati quando sperimentammo quelle brevi separazioni da lei, abbandonati quando entrammo per la prima volta all’asilo o a scuola. E questo ancestrale abbandono riecheggia ogni volta che un amico si separa da noi, ogni volta che una storia di amore finisce, ogni volta che un legame si spezza, ogni volta che un progetto sfiorisce, un sogno svanisce, una prospettiva si chiude. Ci sentiremo abbandonati anche quando chiuderemo per l’ultima volta gli occhi su questo mondo, ci sentiremo forse soli, lontani da coloro che ci hanno sempre amati, esclusi dai loro tocchi e dalla loro presenza. La paura dell’abbandono attraversa le nostre vite come un filo rosso che interseca i tempi e le stagioni e che racconta in modo inequivocabile la natura più intima della nostra fragilità e finitudine.

Forse è per questo che nessuno di noi diviene davvero libero, davvero uomo, se non attraversando questa porta stretta dell’abbandono, quella soglia che ci fa sentire “sciolti dal possesso”, liberi di essere noi stessi perché liberi di appartenere solo alla vita. La libertà, quella vera, radicale e profondamente umana, esige questo attraversamento, questo sperimentare il senso drammatico dell’abbandono, dell’assenza, della desolazione e del tradimento.

Forse è per questo che oggi abbiamo udito l’urlo di un morente che, sul patibolo della croce, ha gridato «Eloì, Eloì, lemà sabactàni?», che significa: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Perché non c’è umanità vera senza quel grido, perché senza quella drammatica esperienza il Maestro di Nazareth non avrebbe condiviso in pienezza la nostra storia, perché quel grido è il medesimo grido che ogni giorno affiora sulle labbra dei reietti della storia, dei disperati di ogni continente, dei senza-Dio che non vedono la luce nelle loro esistenza.

Forse è per questo che la nostra speranza consiste nell’aggrapparci al quell’urlo, nel farlo nostro, nel lasciarlo rimbombare dentro la nostra anima, non come un estraneo maligno, ma come ospite amato, benvenuto, benedetto.

Perché, alla fine dei conti, solo se il nostro abbandono potrà essere gridato, invocato, urlato a pieni polmoni, posto dentro una relazione con qualcuno o Qualcuno, incastonato dentro un legame che, per quanto doloroso e lontano, percepiamo come affidabile, ebbene solo se la nostra solitudine saprà aprirsi in una invocazione, solo allora sperimenteremo la gioia di sentirci ritrovati.  

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