un punto di appoggio

Riprendo quanto avevo accennato in precedenza (QUI) in questo articolo per il Cittadino, pubblicato il 15 maggio 2024.

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Sono distrutto, ucciso, non sono più un uomo!” disse Aleksej Aleksandrovic confidandosi con la contessa Lidija Ivanovna, dopo che la moglie lo ebbe lasciato per amare il conte Vronsky. Il marito di Anna Karenina (nell’omonimo capolavoro di Tolstoj) resta come annichilito da quanto la vita gli ha riservato, incredulo ed impotente di fronte alla separazione subita. “La mia situazione è orribile perché non trovo in nessun posto, non trovo in me stesso nessun punto d’appoggio” lamenta Aleksej: la ferita inferta da Anna esigerebbe la capacità di Aleksej di trovare dentro o fuori di sé un punto su cui fare forza e grazie al quale riprendere a vivere. Il dolore per l’accaduto spinge Aleksej a cercare un luogo sicuro, un riparo, un appiglio capace di garantire sicurezza. Il dramma di Aleksej non consiste solo nell’allontanamento di Anna, ma anche nella fatica a trovare conforto e sostegno nel mondo e dentro se stesso.

È la sorte destinata a tutto coloro che attraversano periodi difficili, duri, di sofferenza o di delusione. Come la tempesta che coglie la nave in mezzo al mare durante la navigazione e la sferza con il vigore delle sue onde, allo stesso modo la fatica e l’amarezza scuotono il cuore e la mente di chi cade vittima della loro insopportabile presenza, lasciando il malcapitato, proprio come Aleksej Aleksandrovic, privo di punti di appoggio.

Accade nella trama complicata delle nostre vite individuali, ma è il destino che accomuna pure le nostre comunità ecclesiali, politiche e sociali. Il tempo presente pare davvero segnato da questo vagare senza meta, da questa tristezza senza ragione, da un malessere esistenziale che è complicato descrivere e giustificare a parole. Nella società dell’opulenza, dove la logica del “tutto, sempre, subito” governa la dinamica del desiderio, appare sorprendente questo ripiegamento depresso, questa eterna insoddisfazione che ci conduce in un tempo dalle passioni tristi, come l’ha descritto qualcuno, un tempo grigio, malinconico, scoraggiato.

Mi pare l’umore che si respira anche in questa nostra Italia di inizio millennio, nella reta composta delle nostre comunità di appartenenza, in quella, spesso anonima, trama di contatti, relazioni e conoscenze che animano le nostre vite. Possediamo infinite possibilità ma sperimentiamo una cronica insoddisfazione; abbiamo tutto ma sentiamo quella insidiosa sensazione che manchi sempre qualcosa, quel “quid” capace di donare pienezza e compimento. Forse, proprio come il personaggio di Tolstoj, patiamo, più o meno consapevolmente, l’assenza di un centro, la mancanza di un polo di gravità, la nostalgia per un luogo ospitale, appagante e sicuro. Questo movimento alimentato da un desiderio senza oggetto, da una pulsione senza nome, da un viaggiare senza destinazione, acuisce e radicalizza il senso del nostro disorientamento, lasciandoci come foglie sospinte dal vento, senza posto e senza pace.

Non sono più un uomo!” è costretto ad ammettere Aleksej Aleksandrovic e forse, con lui, siamo tentati anche noi di ripetere le stesse parole. Non si è uomini se non si possiede un punto di appoggio, se non si sa eleggere un posto come propria “casa”, se non si individua un centro esistenziale attorno al quale far ruotare la vicenda della nostra esistenza. La nostra umanità trova senso e consistenza nella misura in cui è capace di ritrovare un perché, un appiglio allo scorrere dei giorni, un porto nella tempesta del vivere. Si diventa uomini, pare suggerirci lo scrittore russo, solo grazie alla possibilità di mettere radici, di trovare un fondamento, di consacrare un luogo che possa divenire, come sostiene John Bowlby, una base sicura per la nostra vita.

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