Le sofferenze ci cambiano, così come lo fanno le delusioni, i fallimenti, i tradimenti e tutte le varie occasioni in cui la vita ci pone di fronte alla fragilità della nostra esistenza e dei nostri legami. Eppure dipende da noi come scegliamo di reagire a questi eventi: non c’è alcuna bacchetta magica, nessun automatismo, nessun rapporto predeterminato di causa ed effetto.
Ogni sofferenza segna una soglia, un confine, la demarcazione di un passaggio. Dopo ogni dolore sentiamo quasi naturalmente il senso di un prima e di un dopo, come se la nostra vita subisse una cesura tra quanto era in precedenza e quanto è accaduto successivamente. È forse questo il tratto più definitivo di ogni dolore e di ogni delusione: le cose non restano come erano prima, non si può dimenticare l’accaduto, non si può simulare che le cose non siano mai successe.
Se tuttavia il fallimento agisce come una porta che introduce in un nuovo mondo, esso lascia a noi decidere in quale ambiente vogliamo vivere. Il dolore non ci permettere di scegliere “se” cambiare ma ci lascia la libertà di decidere “come”. È in questo momento che entra in gioco la nostra libertà e la nostra determinazione di definire cosa ne vogliamo fare del dolore che abbiamo tra le mani.
Esso può essere una valida scusa per il ripiegamento, sia esso depressivo o risentito, per una ritrazione dalla vita, per una rinuncia ai legami e agli affetti. Quando si resta feriti, la tentazione di fuggire è sempre dietro l’angolo. Ogni pericolo ci mette di fronte alla scelta “fly or fight”, scappa o combatti. È una scelta possibile, spesso comprensibile e naturale: di fronte a quanto percepiamo come “eccessivo” non ci è lasciata alternativa alla ritirata.
Oppure possiamo decidere di trasformare quel fallimento o quel tradimento in una occasione per fare un passo avanti, per maturare, per crescere in umanità, per acquisire consapevolezza e resistenza, pazienza e resilienza. Non vi è nulla di automatico in tutto questo, né di spontaneo o facile. Guardare in faccia il proprio dolore per elaborarlo, per farci i conti, per scendere a patti, per negoziare con la sua crudele durezza, è un atto coraggioso e spesso eroico. Non è mai agevole guardarlo fisso negli occhi e lasciare che esso ci educhi con la sua mano greve e severa; non è facile accettare che esso punti dritto a quella parte di noi che è immatura e, in quanto tale, sofferente; non è scontato lasciarsi plasmare, guidare, interrogare e disturbare, far si che esso sia capace, nonostante tutto, di aprire una via, indicare una strada, prospettare una soluzione.
Come dicevo, sta a noi decide che farne del nostro dolore, del nostro smarrimento e del nostro senso di fallimento. Possiamo usarlo come un pesticida o come un fertilizzante, come una disgrazia o una opportunità, come un binario morto o una pista di decollo.









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