Osservare la complessa situazione mediorientale attraverso gli occhio giovani e coraggiosi di Aeham è un’esperienza disorientante ed affascinante, perché le questioni geopolitiche e le tensioni belliche si fanno carne, ossa, sguardo, pelle e calore. Ho incontrato Aehem durante un suo concerto organizzato dal MEIC ad Abbadia Cerreto. Aeham è un giovane pianista palestinese, che, come molti suoi connazionali, viveva con la famiglia di origine in uno dei molti campi profughi per sfollati in Siria. La sua foto con il pianoforte nelle disastrate strade di Yarmouk ha fatto il giro del mondo e lo ha reso celebre come il “pianista delle macerie”. Rifugiatosi in Germania, dove tutt’ora vive con la moglie e i tre giovanissimi figli, Aeham è un musicista di fama europea, più volte premiato non solo per la qualità delle sue composizioni ma pure per il suo impegno per la pace, la convivenza e l’impegno a favore del popolo palestinese.
Eppure, tutte queste parole perdono in qualche modo consistenza quando incontri Aehem di persona, quando le tue braccia abbracciano le sue e quando i tuoi occhi incontrano la profondità di un volto che ne ha già viste molte nella sua giovane vita. Le parole, i concetti, i pensieri in realtà non sono in grado di raccontare la ricchezza di un incontro, la densità della carne, la straordinaria intensità che nasce quando le esistenze si incrociano, i destini si afferrano e il contatto supera la soglia dei convenevoli e delle formalità.
Aeham ha un volto solare, sorridente, a suo modo ammaliante. Gli occhi vispi e profondi tradiscono una sensibilità profonda, complessa, vivace. Ha un sorriso stampato in volto ed una affabilità che travolge l’interlocutore in un movimento di reciproca fiducia e di intesa. Eppure, ci sono momenti in cui quella vitalità intensa lascia spazio ad una preoccupazione che, lo capisci immediatamente, abita il suo cuore. Accade quando parla del fratello da dodici anni detenuto in Siria in un carcere per dissidenti politici, colpevole di aver preso parte ad una manifestazione di protesta contro il regime siriano; succede quando racconta del suo maestro di pianoforte, un cristiano di Aleppo, che vive in una condizione di isolamento a motivo del suo orientamento sessuale; accade ancora quando Aehem parla della sua terra, del suo popolo, della repressione israeliana di Gaza, del sangue che scorre innocente da entrambi i lati del conflitto. È allora che la luce dei suoi occhi assume una tonalità seria, coinvolta, partecipata, accorata: la dolcezza dello sguardo non smarrisce la sua profondità ma diviene ancora più determinata, cocciuta, ostinata.
Aeham è un pezzetto del popolo di cui porta il sangue nelle vene, è un testimone del calvario che la sua gente ha subito nel corso della storia a motivo di un conflitto di cui ormai si confondono le ragioni ed i torti. Con la sua musica e, forse ancora, con la sua presenza fisica e scenica, Aeham è un annunciatore di pace, un messaggero di un altro mondo possibile, nel quale il pianoforte, la cultura, il dialogo e la parola diventano soglie di un incontro, luoghi di uno scambio, confini da attraversare per andare verso l’altro con speranza e fiducia.
Baruch Spinoza diceva che ancora non sappiamo di cosa è capace un corpo, e, mi sento di aggiungere io, di cosa può la carne, il contatto, il tocco e la vicinanza. Forse è solo quando sperimentiamo paticamente la realtà profonda ed ineffabile dell’altro che davvero inizia la pace; è solo quando l’altro è lì, davanti a te, come presenza muta e calda, viva ed interrogante, definita e radicalmente trascendente, che è possibile immaginare un mondo differente. Forse l’incontro con Aeham ci istruisce che i pensieri, i discorsi, le riflessioni non sono all’altezza della nostra carne, del mistero eccedente che si celebra quando due corpi si abbracciano, quando gli occhi si indagano, quando le esistenze si incrociano, non nell’astrattezza del logos ma nella materiale concretezza del pathos.
Pubblicato su il Cittadino del 18 giungo 2024









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