Giovanni Allevi non ha certo bisogno di presentazioni: musicista di fama internazionale, è conosciuto in tutto il mondo per la sua musica. Innumerevoli le sue performance finite sui media, dal concerto al Senato della Repubblica nel 2008 alla partecipazione a San Remo nel 2015. Un folto pubblico lo segue sempre nelle sue esibizioni e la genialità della sua persona e della sua arte affascinano molti, non solo a motivo delle note che sa produrre ma anche del pensiero che sa ispirare. Nonostante l’ampio successo mediatico e commerciale, talvolta il suo nome è oggetto di critiche nel mondo austero della musica classica e non sono mancati giudizi anche taglienti alla sua produzione artistica.
Negli ultimi anni è purtroppo finito sulle prime pagine dei giornali per la sua malattia: una forma tumorale, un mieloma multiplo, lo ha costretto ad allontanarsi dalla scena musicale per curarsi. L’assenza dalle scene è durata alcuni anni fino all’inizio di quest’anno quando ha ripreso un tour in giro per l’Italia.
Quella a cui ho assistito a Milano è stata una delle prime uscite pubbliche: in un teatro stracolmo in ogni ordine di posti, Giovanni ha reincontrato il suo pubblico che gli ha mostrato un affetto ed un apprezzamento davvero straordinari.
Ricordo ancora le parole con cui ha introdotto il brano di apertura: il maestro si scusava in anticipo per alcune note che sarebbero potute finire “fuori posto” a causa dei molti farmaci che ancora stava assumendo. Inutile aspettarsi una performance perfetta – pareva ammonire Allevi – perché dopo la malattia non aveva ancora recuperato il pieno controllo delle sue dita.
Tra me e me ho pensato che, in fondo, se avessi voluto assistere ad una esecuzione perfetta dei suoi brani, sarebbe stato sufficiente stare a casa ed accendere uno stereo. La bellezza dell’esecuzione dal vivo non solo accetta ma direi che esige quelle mille imperfezioni che il “bello della diretta” non fa mai mancare.
Umberto Galimberti sostiene che la nostra individualità consiste nella qualità delle nostre imperfezioni, dei nostri tic, delle nostre fragilità e forse, in una parola, della nostra irrazionalità. Se la razionalità rende noi uomini uguali in dignità e valore, è la nostra irrazionalità che ci rende unici, singolari ed irripetibili. “Tutte le famiglie felici sono uguali, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo” scrive Tolstoj e forse, per estensione, potremmo ripetere lo stesso concetto per la nostra razionalità.
Se ci pensate ciò che fa di noi persone uniche è quella parte di noi che nessun computer potrebbe mai simulare: il desiderio, l’amore, la passione, i sogni, i legami, le amicizie, le paure, le sofferenze, ebbene tutte queste cose afferiscono a quella dimensione irrazionale che sfugge al controllo logico e matematico. Eppure sono esse che fanno di noi quello che siamo, che ci rendono soggetti originali ed inarrivabili.
È solo nella dimensione della finitezza, della fragilità, dell’imperfezione che abita l’umano; è solo in questa soglia di inesattezza e di imprecisione che è possibile un incontro tra uomini reali, veri, sinceri, veritieri, in carne ed ossa. C’è una parte di noi che nessuna intelligenza artificiale saprà mai riprodurre ed è quella parte in cui la nostra fragilità ed incompletezza emergono con maggior evidenza. Il computer non sa sbagliare, non sa fallire, non sa mettere quella nota fuori posto nella sinfonia della nostra vita. Eppure è proprio quella nota stonata che rende la nostra esistenza una melodia, benché imperfetta, assolutamente unica.
Pubblicato su il Cittadino del 2 Luglio 2024









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