la difficile arte del congedo

Miss Ruth era una signora e una signora sa sempre quando è ora di andare…,” dice la vecchia cuoca Sipsey a Idge, riferendosi alla morte dell’amica Ruth. Idge si trova al capezzale della donna ormai esanime e piange per la dipartita dell’amica, vittima di un male incurabile. L’amicizia tra Ruth e Idge è stata forte, intensa e vitale fin dal primo momento del loro incontro, ma per le due donne giunge il momento della separazione, dell’addio definitivo, doloroso e mesto. Nulla in questo mondo è per sempre e, nonostante l’intensità dell’affetto, anche per Ruth e Idge arriva il tempo del congedo. Questo passaggio segna l’intensa vicenda raccontata in “Pomodori verdi fritti alla fermata del treno,” film statunitense del 1991 diretto da Jon Avnet e basato sul libro di Fannie Flagg “Pomodori verdi fritti al caffè di Whistle Stop.”

In fondo, penso abbia ragione la vecchia e saggia Sipsey: c’è un’arte del congedo che non tutti conoscono e sanno praticare. È difficile per ciascuno di noi comprendere quando sia arrivato il momento di lasciare, di mollare la presa, di congedarsi dalla scena, di salutare il pubblico e prendere commiato. C’è una naturale tentazione a restare sempre sotto le luci della ribalta, a rimanere in prima linea, sempre pronti alla battaglia. Forse perché il nostro narcisismo rischia di uscirne ferito, umiliato, frustrato: com’è possibile che il mondo continui anche senza di noi? È difficile convincersi di non essere così necessari e indispensabili e che è possibile passare la mano e lasciare ad altri la responsabilità che abbiamo assunto, sul lavoro, nel volontariato, in un impegno, nell’esercizio di un ruolo o nell’esecuzione di un compito. La pretesa di essere inamovibili ed essenziali è la malattia che ammorba tutti noi, specialmente coloro che esercitano responsabilità in ambito politico, civile ed ecclesiale.

Lo evidenzia anche Massimo Recalcati in un suo recente articolo. Nietzsche, ricorda il noto psicanalista, parla dell’arte di saper tramontare, e di saperlo fare al momento giusto, senza indugio, senza recriminazioni o malinconia. Per citare un altro grande del Novecento, Heidegger direbbe che l’uomo è un essere-per-la-morte, non in senso pessimistico o nichilistico, ma perché la fine appartiene all’inizio, essendo condizione imprescindibile e destino ineludibile già dal primo momento in cui apriamo gli occhi su questo mondo.

Il triste spettacolo a cui stiamo assistendo, e che vede protagonista il presidente Biden nella travagliata campagna elettorale americana, ne è un esempio chiaro e plastico. È sempre forte la tentazione di guardare alla propria leadership o alla propria responsabilità in modo patriarcale, con l’arroganza di chi si sente l’unico capace di raggiungere l’obiettivo. C’è una presunzione di indispensabilità che offusca il giudizio e che porta alla convinzione paranoica che coloro a cui sarebbe “naturale” passare la mano siano potenziali parricidi, invece che legittimi eredi. Sostiene sempre Recalcati che, in fondo, tutto questo afferisce alla relazione esistenziale che ogni leader sperimenta verso la propria morte: quando il congedo e il tramonto divengono un evento da censurare e negare, e non un fisiologico affidamento ad altri, si scade in forme paranoiche e penose di ostentazione di un’apparente giovinezza che sa strappare solo un sorriso triste. Anche in Italia siamo stati tutti testimoni di eredità politiche mai realmente consegnate e tramandate, ma consumate dentro forme narcisistiche e ripetitive. Eppure, l’atto del congedo è l’unico capace di rendere feconda l’eredità che ciascun uomo ha costruito durante il corso della propria vita: senza questa consegna, senza quel passo indietro che apre al futuro, il patrimonio resta come chiuso in un circolo autoreferenziale e, alla fine, decadente.

Quanta saggezza in quelle parole del Maestro di Nazareth che ammonisce così i suoi discepoli: “Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: ‘Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare.’” Non c’è alcun disfattismo né cinico pessimismo, solo la sana consapevolezza che l’esistenza continua, fortunatamente, anche senza di noi, e che la Vita sa rigenerarsi e progredire con una vitalità che eccede i nostri sforzi, le nostre competenze e aspettative. In questa prospettiva, l’arte del congedo si trasforma in un atto di generosità e saggezza, capace di conferire un significato profondo alla nostra esistenza e di garantire la continuità della vita e dei valori in cui crediamo.

Pubblicato su il Cittadino del 16 luglio 2024

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