In questa afosissima estate del 2024, l’attenzione collettiva è catturata dalla celebrazione delle XXXIII Olimpiadi dei tempi moderni. Per diverse settimane, le prime pagine dei giornali e le home page dei siti di informazione sono dominate dai racconti dettagliati delle tantissime gare che si disputano a Parigi. Per circa un mese, il focus dell’informazione si sposta dai tragici eventi internazionali alle competizioni sportive che affascinano e catturano l’interesse di tutti. Ci si ritrova così davanti agli schermi a tifare per gli atleti del proprio Paese o ad ammirare le prestazioni dei campioni sportivi alla ricerca di nuovi record e di podi su cui celebrare i propri successi.
L’enfasi posta sulle gare e sulla dimensione competitiva dei giochi sottolinea uno dei tratti distintivi dei nostri tempi: quello dell’eccellenza e del successo. Consapevoli o meno, viviamo un periodo storico in cui sperimentiamo un’eccessiva esaltazione della dimensione prestazionale e agonistica dell’esistenza, sia che si parli di sport, di lavoro, di relazioni, di amicizie o di hobby. Vi è una regola implicita ma assai influente che governa i comportamenti e le scelte dell’uomo del nostro tempo: vincere, prevalere, raggiungere il risultato, diventare qualcuno, emergere sugli altri, fare la differenza. È un tratto che i nostri figli sperimentano già nei primi anni di scuola e che li accompagna in tutto il loro cammino formativo. È una regola, talvolta non detta o dichiarata, che tuttavia sottende stili educativi, scelte personali e familiari, opzioni professionali e decisioni di vita. È una dimensione onnipresente che esalta l’eccellenza, che elogia il merito e il successo e che magnifica coloro che, in qualunque settore, “ce l’hanno fatta”.
Non che questo sia un fatto di per sé negativo o riprovevole: impegnarsi per arrivare primi in una corsa, così come nella vita, esprime un senso di determinazione, diligenza, responsabilità, cura di sé e onore. Adoperarsi per restare protagonisti della propria esistenza è ciò che fa di noi esseri umani consapevoli e liberi.
Tuttavia, questo incalzante invito a eccellere rischia di ignorare e rimuovere una dimensione altrettanto costitutiva ed ineliminabile delle nostre esistenze: quella del fallimento. Ogni essere umano conosce bene il gaudio del successo così come la delusione della sconfitta, la soddisfazione del traguardo e la frustrazione della disfatta. Non c’è vita realmente umana che non debba tenere presenti questi aspetti contrastanti e opposti della vita. Nessuno di noi gode dell’uno senza l’altro, sicché enfatizzare solo la dimensione trionfante dell’esistenza rischia di porre le premesse per un’inevitabile infelicità futura. Sarebbe bello ricordare ai nostri figli che, insieme ai tre atleti che finiscono sul podio con una medaglia al collo, ve ne sono moltissimi altri che hanno, apparentemente, fatto l’esperienza della sconfitta e della perdita.
Il punto davvero cruciale, che riguarda i successi olimpici ma in maniera assai più rilevante le nostre vite, è il senso e il valore che diamo ai nostri fallimenti. Se la sconfitta è un evento insensato, disumano, inaccettabile, se essa diviene un dato da censurare nelle nostre vite, ogni insuccesso si trasforma in un evento tragico, la fine di tutto, l’impossibilità di restare uomini e donne apprezzati e riconosciuti. Se il successo è il solo parametro di giudizio e se l’eccellenza è il solo valore riconosciuto, è naturale che le nostre esistenze si trasformino in una lotta senza quartiere per appartenere a quel ristretto gruppo di “salvati” che ce l‘hanno fatta. Se invece la dimensione del limite, della fatica, della sconfitta appartengono alla nostra umanità come luogo in cui si disvela un senso eccedente della vita, ogni traguardo non tagliato ed ogni meta non raggiunta non diventano la tomba delle nostre aspirazioni ma il terreno in cui i nostri sogni possono essere coltivati, curati e accolti.
È forse per questo che i grandi racconti della letteratura e del mito che segnano la nostra cultura sono così ampiamente segnati dall’esperienza del fallimento e della sconfitta. Ne sappiamo qualcosa noi cristiani, ad esempio, che celebriamo ed onoriamo un Maestro che non solo ha concluso la sua vita crocifisso su una croce, ma che ha frequentemente sperimentato, nel suo cammino insieme ai suoi amici, il rifiuto, l’incomprensione, la delusione, la manipolazione, il ricatto, la minaccia e il tradimento. Non c’è vita realmente umana – così pare dirci la sapienza di ogni tempo – che non debba misurarsi e fare i conti con la dimensione del fallimento e della sconfitta. Per usare una metafora olimpica, forse dovremmo davvero educare i nostri figli a riconoscere che la vita non è una corsa a ostacoli, ma una gara di tiro a segno: non occorre arrivare primi, ma saper fare centro.
Pubblicato su il Cittadino del 6 agosto 2024 (QUI)









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