Il racconto di Elia nella liturgia di oggi è un po’ il racconto di tutti noi: chi non ha mai provato, nella vita, lo sconforto di dire “basta, io mi fermo qui”, “non ce la faccio più”, “voglio mollare”? Ognuno di noi si è trovato, talvolta, rannicchiato sotto la propria ginestra, desideroso, se non proprio di morire come il profeta di Dio, quanto meno di rinunciare e smettere di lottare.
La vita ci fa attraversare momenti come questi, in cui lo scoramento rende il percorso insostenibile e l’unica soluzione che si intravede è la rinuncia e la fine. A volte è una malattia, un tradimento, un fallimento, un legame che si spezza, un obiettivo non raggiunto, un sentimento non ricambiato. È un’esperienza atroce, che ci mette di fronte a tutta la nostra fragilità, alla nostra povertà esistenziale, al nostro limite e alla nostra pochezza. Ci sentiamo fratelli del povero Elia, che non trova alternativa a un sonno in cui dimenticare la sconfitta, dissolvere la depressione e trovare un po’ di pace. “Si coricò e si addormentò sotto la ginestra.”
Come è possibile uscire da questo avvilimento? Come riprendere vigore, come ritrovare la forza per abbandonare la prostrazione? Nonostante ci aspettassimo effetti speciali o soluzioni eclatanti, la terapia adottata da Dio per il suo profeta è assai semplice e, per certi versi, disarmante. Egli non manifesta la sua gloria, non pronuncia un giudizio di condanna, non compie gesti che possano convincere Elia a riprendere il viaggio. Egli, attraverso il suo angelo, usa tre semplici e “banali” elementi: un tocco, una voce, un pezzo di pane. “Ma ecco che un angelo lo toccò e gli disse: «Àlzati, mangia!».”
Basta un tocco che rompa la bolla della nostra solitudine autistica; basta un invito che ci spinga ad alzarci per non rimanere imprigionati nella tristezza; basta un pezzo di pane che diventi alimento e sostegno del cammino. Bastano cose ordinarie, feriali, tanto semplici da essere sottovalutate. Eppure, nella loro semplicità, esse sono esattamente ciò di cui Elia aveva bisogno, tanto che “con la forza di quel cibo camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb.”
A volte è inutile cercare cose miracolose, andare in cerca di ricette portentose per il nostro male di vivere. A volte la medicina è più vicina di quanto possiamo pensare. A volte essa è lì accanto a noi, nella ferialità della nostra esistenza, nella quotidianità dei nostri legami, in quelle mille voci e mille tocchi che ci sfiorano tutti i giorni. A volte la via d’uscita è nella fragranza di un piccolo pezzo di pane appena cotto, che ci ricorda che c’è un bene fuori di noi che sa darci la forza e il coraggio per andare avanti.
Non serve sempre cercare dentro di noi risposte che non troviamo: a volte esse sono nelle cose che la vita ci pone accanto, come preziose e umili benedizioni.









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