Ius scholae

La vicenda ricorda molto quei fenomeni naturali ricorrenti, come le eclissi solari o l’arrivo di El Niño, che si presentano a intervalli regolari. Allo stesso modo accade con le proposte di legge per l’acquisizione della cittadinanza italiana da parte di immigrati extracomunitari e dei loro figli: ogni quattro o cinque anni si riapre il dibattito sulla necessità di permettere ai ragazzi stranieri che vivono in Italia di diventare cittadini a pieno titolo della nostra comunità. In questi giorni, sulle prime pagine dei giornali, si discute dello “ius scholae”, ossia della possibilità di ottenere la cittadinanza italiana dopo aver completato un ciclo di istruzione scolastica. In passato, simile attenzione era stata riservata allo “ius soli”, che legava la cittadinanza al fatto di essere nati in Italia, e allo “ius culturae”, che puntava sulla capacità del ragazzi di aver assimilato e di essersi integrati nel “mondo culturale” in cui sono inseriti. Tuttavia, questo dibattito ricorrente, purtroppo, non ha ancora portato a una reale modifica legislativa.

L’ “effetto Olimpiadi” sembra aver contribuito a riaprire la questione, riportandola al centro del dibattito pubblico. È innegabile che i protagonisti e i medagliati della delegazione italiana abbiano mostrato un’Italia diversa, profondamente multietnica e plurale, lontana dagli stereotipi di una presunta italianità che alcuni continuano a promuovere. Ostinarsi a riferirsi ai tratti somatici, al colore della pelle o alla nazionalità dei genitori non rappresenta più un criterio accurato e veritiero per descrivere il nostro Paese.

Basta una rapida occhiata ai dati statistici per comprendere la realtà: nel 2022, il numero di studenti con cittadinanza non italiana era di 914.860, con un aumento del 4,9% rispetto all’anno precedente. Questi alunni rappresentavano l’11,2% della popolazione studentesca, e negli ultimi due anni, a causa del calo demografico, il numero non può che essere aumentato. Chi ha figli in età scolare sa bene che in alcune aree d’Italia, i numeri sono ancora più alti, con ragazzi di origine straniera che costituiscono la maggioranza nelle classi delle scuole dell’obbligo. Nel 2022, il 44% di questi studenti erano di origine europea, il 27% africana e il 20% asiatica. I gruppi più consistenti erano quelli dei rumeni, albanesi e marocchini, che insieme rappresentavano il 40% dell’intera popolazione in questione. Un dato interessante è la percentuale di ragazzi nati in Italia: nel 2022 erano 599mila, ossia il 65,4% degli studenti stranieri. In pratica, due studenti su tre sono nati nel nostro Paese, parlano la nostra lingua e sono cresciuti con i nostri figli, ma non sono cittadini italiani.

La situazione è in continua e rapida evoluzione, e di certo per l’Italia si tratta di un fenomeno strutturale, non emergenziale. È una questione che ci accompagnerà ancora per molti anni e che la crisi demografica degli “autoctoni italici” non può certo contrastare.

Da parte sua, la politica sembra in un triste e perenne ritardo, incapace di interpretare e governare i processi che attraversano la nostra comunità nazionale. La polemica politica spicciola, volta a raccogliere qualche decimo di percentuale nei sondaggi, ha perso il contatto con il Paese reale e sembra più impegnata in piccole battaglie di principio piuttosto che nel guidare e regolare un fenomeno di portata storica. È una politica che guarda al futuro con lo specchietto retrovisore, sognando e rimpiangendo un passato che, se mai c’è stato, non potrà più tornare. Chi ha studiato un po’ la storia sa benissimo che lo Stivale è sempre stato attraversato da flussi migratori o di occupazione differenti e che la presunta italianità basata sui caratteri somatici appartiene più ad una immaginazione impregnata di ideologia che alla realtà dei fatti.

È davvero utile per il progresso e il futuro della nostra nazione continuare a tenere un milione di giovani ai margini delle nostre comunità, come soggetti di serie B, impossibilitati a partecipare alle dinamiche democratiche e ai processi decisionali? È saggio creare crescenti sacche di marginalità civile e politica, alimentando mondi di confine in cui si vive in un Paese senza farne davvero parte? Non sarebbe il caso che la politica, quella con la P maiuscola, adempisse al suo compito e proponesse strategie, misure e iniziative legislative per gestire i processi anziché subirli passivamente?

Forse è il momento di accettare e riconoscere che, come ci ricordava papa Francesco, la realtà è superiore alle idee, e che pretendere di fermare il vento con le mani è non solo sciocco, ma anche estremamente dannoso.

Pubblicato su il Cittadino del 21 agosto 2024

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