la speranza e la fragilità

Papa Francesco non è nuovo a gesti silenziosi che lasciano un’impronta profonda: azioni semplici che riescono a comunicare più di mille parole e a narrare storie che le parole faticano a esprimere. Questi atti toccano direttamente il cuore delle cose, interrogano, inquietano e aprono nuovi orizzonti all’osservatore, sorprendendolo. Chi non ricorda, ad esempio, la passeggiata solitaria in una Piazza San Pietro deserta durante l’epidemia di COVID-19, quando il Papa ci ha ricordato che siamo tutti sulla stessa barca? L’immagine del colonnato del Bernini illuminato in quella serata romana, così carica di suggestione, continua a risuonare nelle nostre menti e nei nostri cuori come un simbolo capace di evocare insieme il dramma e la speranza di quel periodo.

Un’immagine altrettanto potente è quella di Papa Francesco, seduto in silenzio su una carrozzina per disabili davanti alla Porta Santa, durante l’apertura dell’Anno Santo. Come l’immagine di Giovanni Paolo II, col piviale multicolore all’inizio del Giubileo del terzo millennio, anche questa resterà impressa nella memoria collettiva. Ripresa dalla TV, l’immagine è al contempo semplice e sconvolgente: un uomo anziano, segnato dagli anni e dagli acciacchi, seduto come molti suoi coetanei e malati su una carrozzina, muto e riflessivo, che con uno sforzo solleva il braccio destro per bussare a una porta finemente cesellata e decorata, che lentamente inizia ad aprirsi. Il pontefice, in preghiera silenziosa davanti a una soglia, a un varco, che è l’ingresso della basilica cuore della cristianità, trasmette un messaggio potente: non servono gesti eclatanti, perché è proprio la semplicità del gesto a toccare le corde più profonde dell’anima.

Così inizia il Giubileo della speranza, l’Anno Santo che segna il primo quarto di secolo del terzo millennio. La speranza del mondo e la fragilità dell’uomo, la fiducia nel futuro e la debolezza della nostra carne: un binomio audace e sorprendente.

Eppure, quell’istantanea da Piazza San Pietro sembra indicare una via, un senso: ci ricorda che la speranza nasce quando abbracciamo le fragilità umane, iniziando dalle nostre e, per osmosi, da quelle dei nostri fratelli. La speranza non emerge da gesti di arroganza, violenza o forza, ma dal desiderio di riconnetterci con la nostra umanità ferita, con i nostri limiti, con la finitudine che segna i nostri giorni, con la provvisorietà del tempo che passa.

La speranza fiorisce quando silenziamo le voci aggressive e bellicose che ci fanno sentire super-uomini, piccoli eroi caduti dal cielo, animali assetati di vendetta e risentimento; essa nasce quando riconosciamo e accogliamo il significato profondo e umano del nostro limite, delle nostre fragilità e delle nostre povertà più estreme; quando questa fragilità non diventa uno stimolo per aggredire l’altro, ma uno spazio in cui il bisogno si trasforma in invito a un legame, a una relazione e a una fraternità. Le nostre povertà, infatti, possono scatenare strategie aggressive verso il mondo o diventare il luogo dove la nostra carne ci ricorda la nostra reciproca appartenenza, il nostro essere l’uno per l’altro, la nostra intrinseca socialità e dipendenza. Solo da lì, sembra suggerire Papa Francesco, può nascere la speranza per il domani; solo riconoscendo e valorizzando la nostra carne ferita possiamo onorare quella dei nostri fratelli e, insieme a loro, costruire una fraternità e una sororità che aprono al futuro.

Cosa c’è di più natalizio in quell’immagine? Il Figlio dell’Altissimo che abita nella carne ferita dell’uomo perché diventi il luogo di un incontro con l’altro e con l’Altro.

pubblicato su il Cittadino del 28 dicembre 2024

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