la Coca Cola di Van Gogh

Non so se è mai capitato anche a voi di uscire da un museo, una galleria d’arte o una pinacoteca con uno strano senso di colpa che vi opprime il cuore. È come se, in qualche modo, aveste perso qualcosa, mancato un obiettivo o fallito un intento.

Questa insolita sensazione di inquietudine nasce dal fatto che avete appena attraversato sale straordinarie, ricche di arte, dipinti, sculture e altre forme artistiche, e il vostro sguardo è stato catturato dalla bellezza che vi circonda. Sperimentate un misto di fascino e disorientamento, attrazione e confusione, poiché, per quanto possano essere spalancati, i vostri occhi sono incapaci di cogliere e conservare tutta la bellezza che vi circonda. Nonostante i vostri sforzi per essere ricettivi, ci sono più opere che sfuggono al vostro sguardo di quelle che osservate, più opere a cui dedicate un’occhiata fugace di quelle che ammirate, più opere che ignorate rispetto a quelle che contemplate.

Mi viene in mente ciò che scriveva Philippe Daverio: “La gente di solito va nei musei e guarda quattrocento quadri in un’ora e mezza. Torna con i piedi gonfi e va alla ricerca di una Coca-Cola tiepida per dimenticare l’esperienza. I luoghi dove si trovano i quadri si chiamano pinacoteche, così come esistono i luoghi dove si trovano i libri, che si chiamano biblioteche. Nessuno va in biblioteca e legge tutti i libri. Chi va in una pinacoteca, in un museo, dovrebbe andare a vedere due quadri. All’inizio, a mio parere, addirittura uno solo. Chi ha realizzato il quadro ha spesso impiegato due anni per farlo, o anche due mesi. Cosa mi dà il diritto di guardarlo in venticinque secondi? Quando i dipinti erano in chiesa, le persone li vedevano da quando nascevano a quando morivano: per tutta la vita. E ora devono vederlo in un minuto mentre corrono verso il quadro successivo?

Ecco, credo che sia proprio qui il punto. Siamo diventati “consumatori” di arte, esattamente come lo siamo di molti altri prodotti commerciali. Consumiamo un Van Gogh come beviamo una Coca-Cola, accontentandoci della prima emozione che affiora sulla pelle, restando sempre in superficie, sulla crosta delle cose, sull’immediatezza delle sensazioni. Abituati a scorrere velocemente le immagini sui nostri smartphone, diventiamo impermeabili alla bellezza e siamo incapaci di lasciarci interrogare, condurre, stupire, disorientare, affascinare, suggestionare, sedurre, educare, attrarre, impressionare, disturbare, incuriosire, turbare e innamorare da ciò che ci appare. Tutto questo perché richiede tempo affinché il processo della fascinazione abbia luogo; serve tempo, pazienza, costanza, applicazione e impegno.

Sono atteggiamenti a cui, ahimè, siamo poco abituati oggigiorno, tanto che ci relazioniamo con le cose nell’unico modo (disfunzionale) che conosciamo: divoriamo tutto, come in preda a una crisi bulimica che ci lascia poi eternamente insoddisfatti, tristi e delusi.

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