Viviamo immersi nell’incertezza del domani, un presente che si espande in una terra di nessuno, tra ciò che è stato e ciò che potrebbe essere. Il futuro è un’incognita, una nebulosa di possibilità in attesa di concretizzarsi. Ci troviamo di fronte a un bivio sconosciuto, in cui le certezze vacillano e le domande si moltiplicano, costringendoci a confrontarci con la natura stessa del tempo e della speranza. Come ci ammonisce il Vangelo, il domani potrebbe arrivare come un ladro, capace di privarci di ciò che da sempre abbiamo custodito, minando le fondamenta delle nostre vite e instillando un senso di vulnerabilità.
Recentemente, mi sono imbattuto in un quadro di René Magritte, straordinario pittore belga del secolo scorso, che, con la potenza visiva dell’arte, racconta meglio di mille parole la condizione esistenziale di oggi. Si intitola: “Lo stato di veglia”. In questa opera, una casa illuminata nella notte è avvolta da un ampio manto celeste; qualcuno è sveglio, qualcuno attende, benché non ci sia dato sapere esattamente cosa. La luce filtra dalle finestre, affermando una presenza che resiste alle tenebre, qualcuno che attraversa insonne le ore più lunghe e inquietanti della notte.
Magritte, con la sua intuizione geniale, affianca alla casa con le finestre illuminate, altre finestre illuminate che possiedono una strana caratteristica: sono prive di muri che le sostengano, come eteree sentinelle che vegliano su un vuoto indeterminato. Finestre che fluttuano nel vuoto, sospese a mezz’aria. Alla vista di questo singolare quadro, mi sono chiesto se esso non incarnasse perfettamente la condizione dell’uomo contemporaneo: siamo anche noi in attesa, spesso senza un luogo sicuro che ci accolga. Attendiamo nella notte una rivelazione, un segno, pur privi di un tetto sotto cui rifugiarci. Siamo, come quelle finestre, sospesi a mezz’aria nella notte della storia, aspettando un domani che si cela dietro un velo di mistero.
Magritte, parlando della sua arte, affermava che “il surrealismo è la conoscenza immediata del reale”. Forse, in quel quadro enigmatico, dove una solida casa si accosta a finestre illuminate fluttuanti nel vuoto, frutto della fantasia dell’autore, si riflette la condizione esistenziale dell’uomo moderno in tutta la sua cruda verità. Noi, abitanti del presente, viviamo l’angoscia dell’attesa senza un rifugio, senza protezione o certezza. A noi, forse, non resta che una sola opzione: alzare lo sguardo e affidarlo al cielo, in cerca di una nuova promessa.
Quando non ci sono più case confortevoli da abitare, ci rimane comunque un cielo stellato, capace di squarciare il buio della notte e illuminare il nostro cammino. Forse l’assenza di un tetto ci espone all’inquietudine delle intemperie, alla pioggia, al vento, al freddo e alla brina. Eppure, quest’apparente fragilità ci offre l’opportunità straordinaria di scrutare l’orizzonte, mirare alle stelle e lasciarci affascinare dalla vastità dell’infinito, l’unico luogo dove il nostro desiderio può trovare dimora.
La precarietà del nostro tempo ci ricorda che siamo pellegrini, senza stabile dimora, viaggiatori in cerca di luce e di senso, uomini che nessuna casa “fatta da mani d’uomo” potrà mai ospitare. Siamo camminatori dell’infinito, persone sospese, affamate di futuro, assetate di vita e di speranza. Dentro di noi c’è un desiderio che solo il cielo sopra le nostre teste è in grado di soddisfare. Quella strana, e talvolta fastidiosa, condizione di precarietà ci ricorda che siamo abitanti dell’universo, stranieri che calpestano questa terra con la nostalgia dell’Oltre.
pubblicato su il Cittadino del 16 Aprile 2025









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