La società contemporanea, segnata dall’ascesa impetuosa della cultura populista e sovranista, sembra aver perso, tra le proprie molteplici coordinate, quella fondamentale del valore della parola. Non si tratta soltanto di un fenomeno che riguarda la comunicazione politica, benché forse sia lì che tale deriva si sia manifestata con maggiore intensità e visibilità; la svalutazione della parola, del suo peso e della sua consistenza, sembra ormai infiltrarsi nel tessuto profondo delle nostre relazioni, incidendo sul modo stesso in cui uomini e donne si rapportano tra loro e con il mondo.
Un tratto distintivo di questa stagione è la scomparsa dell’esigenza di coerenza. In passato mantenere la parola data costituiva un segno di rispetto verso l’altro e verso sé stessi, un presidio di dignità personale e reputazione sociale. Oggi, invece, si constata con sconcerto come l’adesione alla parola pronunciata sia divenuta secondaria, o persino irrilevante, rispetto alla mutevole logica della convenienza. A guidare i comportamenti non è più il patto sottinteso tra ciò che si dice e ciò che si fa, ma l’opportunità del momento, la necessità di adeguarsi a un pubblico volatile, ai “venti della storia” che spirano ora in una direzione, ora in un’altra.
Basta osservare le cronache politiche nazionali e internazionali per avere conferma di questo fenomeno. I protagonisti del dibattito sembrano pronti, con una disinvoltura preoccupante, a negare ciò che hanno affermato pochi giorni o settimane prima, a rimangiarsi promesse e dichiarazioni che solo ieri erano proclamate con solennità. Non si tratta semplicemente di menzogna: essa, paradossalmente, presuppone comunque un tributo (seppur disfunzionale) al valore della parola, perché mostra la pulsione a manipolare il vero mantenendo un’idea, anche se deviata, della sua forza vincolante. Qui in gioco c’è la svalutazione radicale del concetto stesso di parola come impegno e vincolo sociale.
La parola, in questa stagione di post-verità, non è più chiamata a modellare la realtà; non è più strumento di scambio, di fondazione di reciproca fiducia, di costruzione di senso comune. È ridotta a mero strumento tattico per raggiungere obiettivi immediati, per cavalcare onde emotive, per nutrire o sedare indignazioni effimere. La logica della coerenza lascia il passo alla convenienza della performance, all’adeguamento rapido e costante al mutare degli umori e delle aspettative.
Eppure, il valore della parola affonda le proprie radici nella dimensione stessa della polis, della convivenza civile. Il logos, la parola, è ciò che storicamente ha reso possibile la vita assieme; è il veicolo attraverso cui il caos originario della coesistenza si trasforma in kosmos, in realtà ordinata e regolata. È nella parola che gli uomini riconoscono l’altro come interlocutore, e si inseriscono nel flusso di una storia comune. È grazie alla parola che si stabiliscono leggi, si stringono alleanze, si regolano conflitti, si progetta il futuro.
La vita pubblica, per resistere al tempo e ai suoi mutamenti, richiede punti di riferimento chiari, oggettivi, saldi: promesse mantenute, parole che restano, impegni rispettati. La fluidità e la volatilità della parola contemporanea, invece, producono una convivenza manipolatoria e superficiale, fondata su emozioni immediate e reazioni impulsive. La società non si costruisce così sulla base di regole e principi condivisi, ma sul terreno scivoloso dell’impressione fugace, della replica istintiva, della memoria corta.
Di fronte a questa tendenza, non si può non avvertire un senso di smarrimento. La degradazione del logos non è solo impoverimento del discorso pubblico; è anche, e soprattutto, un fattore di demolizione della polis, dell’ideale stesso di una convivenza ordinata, serena e pacifica. Una società che non riconosce nella parola un vincolo—sia esso giuridico, morale o politico—non è più in grado di garantirsi quella stabilità e quella fiducia reticolare sulle quali si fondano le democrazie mature. Solo se torneremo a credere che la parola “vale”, che è promessa, memoria e progetto insieme, potremo restituire dignità al vivere comune. In caso contrario, ci attende una società sempre più sfilacciata, destinata a oscillare senza tregua tra falsa speranza e continua delusione.
pubblicato su il Cittadino del 27 maggio 2025









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