L’umanità nascosta dentro i non-luoghi

C’è un tempo e un luogo per ogni cosa. Ma cosa succede quando lo spazio che attraversiamo è privo di tempo e il tempo che vi trascorriamo sembra sospeso, come se non ci appartenesse davvero?

Nel cuore della nostra quotidianità iperconnessa e frenetica, ci muoviamo in un mondo pieno di “non-luoghi”, secondo la definizione dell’antropologo francese Marc Augé. Si tratta, ad esempio, di stazioni ferroviarie, aeroporti, centri commerciali, autostrade, hotel, persino piattaforme digitali: spazi che usiamo senza abitarli, che attraversiamo senza viverli, e che dimentichiamo subito dopo esserci stati.

Augé li descrive come simboli emblematici della “surmodernità”, ossia un’epoca dominata dall’eccesso – di tempo, di spazio, di individualismo: la mobilità esasperata espande gli orizzonti geografici ma riduce il senso di radicamento; la sequenza infinita di eventi rapidi genera una temporalità fugace e incontrollabile; infine, viviamo in un mondo in cui ciascun individuo diventa centro indipendente, isolato dagli altri.

Se i “luoghi antropologici” sono proprio quegli spazi che incarnano un senso di comunità, appartenenza e memoria collettiva, i “non-luoghi” vengono definiti in esatta opposizione. In essi, l’essere umano è ridotto a una funzione specifica: talvolta passeggero, altre consumatore, altre ancora semplice utente anonimo. La sua identità, le sue relazioni, la sua storia non contano, poiché per identificarlo sono sufficienti un codice, una carta d’imbarco o una semplice prenotazione online.

Eppure attraversare questi non-luoghi genera sensazioni tutt’altro che neutre: vi si sperimenta un mix ambiguo di libertà e spaesamento, di euforia e disorientamento esistenziale. Si è soli tra la folla, invisibili ma osservati da telecamere e algoritmi.

L’aeroporto è forse il luogo che incarna plasticamente questo concetto. Ogni elemento è progettato per rendere l’esperienza efficiente, ma impersonale. Tutto è segnalato, regolato, standardizzato. Nessuno guarda nessuno. I corpi si muovono come ingranaggi di un meccanismo globale del transito, in cui il tempo si dilata nell’attesa o si comprime tra una coincidenza e l’altra. Siamo ovunque e da nessuna parte nello stesso istante.

Eppure – ci avverte Augé – la distinzione tra luogo e non-luogo non è assoluta né definitiva. Ad esempio, un bar in stazione, frequentato ogni giorno da pendolari, può diventare “luogo”, nella misura in cui genera relazioni, storie, memoria. La stazione è luogo di transito per chi viaggia, ma spazio da abitare quotidianamente per chi ci lavora. In fondo anche nel non-luogo più sterile può insinuarsi una scintilla di umanità, possono crearsi connessioni, possono attivarsi relazioni.

Oggi, persino il mondo digitale ha la struttura del non-luogo: scorriamo profili, facciamo swipe, entriamo in call. Sono spazi che ci invitano a una presenza e, allo stesso tempo, a un’assenza: siamo lì, ma anche sempre altrove. Le relazioni si frammentano in interazioni rapide, leggere, spesso senza radici. Ci rapportiamo con un soggetto divenuto utente, con il quale creiamo relazioni virtuali, spesso fittizie e artificiali. Augé forse non immaginava Facebook o Zoom, ma la sua teoria li anticipa perfettamente.

Nel nostro tempo liquido, non si tratta di rifiutare i non-luoghi, ma di riconoscerne la presenza e il potere sulla nostra esperienza del mondo. Forse dovremmo imparare a sostare, anche nel transito, a trovare senso persino nell’anonimato. Forse la sfida è ripensare questi non-luoghi non solo come segni di declino, ma come “teatri di possibilità”, spazi in cui incontri, riflessioni e pause inaspettate possono spalancare reti di relazioni e d’interconnessioni. Perché, in fondo, ciò che rende uno spazio umano non è la sua forma, ma lo sguardo che vi portiamo.

pubblicato su il Cittadino del 23 giungo 2025 (QUI)

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