Le nozze di Bezos ed il prezzo delle cose.

Il recente matrimonio di Jeff Bezos nella splendida cornice di Venezia ha acceso un acceso dibattito pubblico che è andato ben oltre le cronache mondane. L’evento, caratterizzato da una serie di lussuosi festeggiamenti e dall’occupazione quasi esclusiva di spazi pubblici lagunari, ha posto una domanda difficile, a cui forse è impossibile rispondere senza esitazione: era giusto concedere al magnate miliardario l’utilizzo pressoché esclusivo di una delle città più belle e fragili del mondo?

Da giorni, si fronteggiano due schieramenti: da un lato, coloro che sostengono che l’arrivo di Bezos abbia portato un fiume di denaro nelle casse cittadine, una pubblicità senza precedenti e una vetrina mondiale che potrebbe trasformarsi in un investimento per il futuro turistico della Serenissima.

Dall’altro, chi giudica l’uso esclusivo e privatizzato di uno spazio pubblico come una ferita intollerabile alla dignità della città e dei suoi abitanti, e una violazione dei principi su cui si fonda la nostra convivenza civile.

Personalmente, non so dire quale posizione sia più fondata. Quello che però emerge da questa vicenda, al di là delle simpatie personali o delle proprie convinzioni politiche, è un interrogativo ben più profondo, che riguarda la nostra società tutta: qual è oggi il limite concesso al potere del denaro?

Viviamo in un’epoca in cui tutto, dalla bellezza di una città al tempo delle persone, sembra essere in vendita. Il denaro sembra essere diventato il nuovo vitello d’oro davanti al quale tanti chinano il capo, dimenticando ogni altro principio. La logica della domanda e dell’offerta si sta applicando non solo ai beni materiali, ma sempre più alle idee, alle emozioni e – adesso – agli spazi pubblici. In questa deriva, viene spontaneo chiedersi: esistono ancora cose che non possono essere comprate? C’è ancora qualcosa che, nella nostra società, possiamo e dobbiamo considerare “sacro”? Nel senso etimologico del termine, “ciò che è separato”, cioè distinto, definito ed individuato come indisponibile ai capricci o agli appetiti privati.

Non si tratta solo di una questione di opportunità o di regolamenti amministrativi. Si tratta di decidere, tutti insieme, che tipo di società vogliamo essere. Vogliamo davvero una comunità in cui ogni esperienza umana diventa una merce, in cui persino le piazze, i canali, le chiese e le isole posso essere affittate da chiunque abbia la possibilità di pagarne il prezzo? Vogliamo che ogni cosa sia sottoposta alla legge del più ricco, o c’è ancora spazio per beni comuni, per luoghi e valori che appartengano a tutti, indipendentemente da “chi paga”?

Abbiamo già visto i corpi essere mercificati, le idee diventare oggetto di offerta e domanda, e adesso sembra poter toccare anche agli spazi pubblici. Questa non è più solo una questione che riguarda Venezia, ma tutti noi. Forse, la vera domanda che ci pone l’evento veneziano non è se fosse giusto o sbagliato, ma se siamo ancora capaci di dire “qui no, questo non si compra”. Se questa società ha ancora dei confini invalicabili, o se tutto è ormai in saldo al mercato globale degli appetiti privati.

Il rischio, più profondo, è che questa mercificazione inaridisca il senso stesso di appartenenza comunitaria. Se ogni luogo, ogni simbolo, ogni esperienza può essere oggetto di compravendita, cosa ci resta di veramente comune? Cosa ci unisce ancora come cittadini, come membri di una comunità che si riconosce in valori e beni che dovrebbero essere tutelati al di fuori delle regole del mercato?

La questione, insomma, non è solo di Venezia o dei giorni delle nozze di un miliardario: è una questione che ci interroga tutti e riguarda il modo in cui concepiamo il patto sociale. Siamo disposti a difendere ciò che è di tutti, oppure accettiamo senza battere ciglio che tutto, nel tempo, possa essere “messo all’asta”? Fin dove siamo pronti ad arrivare nel lasciare che sia il denaro a dettare legge sulle nostre vite, sui nostri spazi, sull’eredità che lasceremo a chi verrà dopo di noi?

Forse è venuto il momento di chiederci se la vera ricchezza di una società non sia la capacità di stabilire dei limiti, di dire “no”, di riconoscere che esistono valori e beni indisponibili, custoditi e tramandati non perché possano fruttare un ritorno economico immediato, ma semplicemente perché rappresentano la nostra storia comune, il nostro modo di stare insieme, le nostre radici più profonde. In gioco, dopo tutto, non c’è solo il destino di Venezia, ma la dignità stessa delle nostre società.

pubblicato su il Cittadino del 1 Luglio 2025 (QUI)

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