Qualche settimana fa è scomparsa Nina Kuscsik, un nome che probabilmente la maggior parte delle persone non ricorda. Eppure questa donna, venuta a mancare all’età di 86 anni, è stata una vera e propria paladina dell’emancipazione femminile nella seconda metà del secolo scorso, una pioniera che, con coraggio e determinazione, ha rotto antiche barriere e pregiudizi nel mondo dello sport. Quella che potrebbe apparire come una storia di nicchia – la vicenda di una maratoneta americana degli anni Settanta – è in realtà una testimonianza preziosa del lungo processo di affrancamento delle donne, che si è spesso combattuto su campi di battaglia inattesi, come le strade di Boston o New York.
Nina Kuscsik nacque nel 1939 a Brooklyn, New York, in una famiglia operaia. Fin da bambina mostrò un’inclinazione naturale per l’attività fisica, che coltivò con ostinazione nonostante il contesto sociale dell’epoca scoraggiasse apertamente le ragazze a cimentarsi nello sport, specie quello più “duro”. “Giocava sempre in strada con i ragazzi del quartiere, si distingueva per agilità e resistenza,” ha ricordato suo figlio Steve alla BBC. “Alle superiori era già bravissima, ma fu il ciclismo a regalarle le prime soddisfazioni: da adolescente fu campionessa dello Stato di New York. Quando però la sua bicicletta si ruppe, iniziò a correre, dicendo che doveva restare in forma”. Decisivo fu anche un fatto di cronaca che la colpì profondamente: “Lesse che Roger Bannister aveva corso il miglio in meno di quattro minuti, si chiese quanto veloce avrebbe potuto essere lei sulle sue gambe e così iniziò a dedicarsi seriamente alla corsa”.
Ma il mondo che trovò era ancora ostile alle donne. Negli anni Sessanta alle atlete era vietato partecipare alle maratone o ad altre gare di lunga distanza: si pensava che la fatica compromettesse la salute fisica delle donne, addirittura la loro fertilità. Per Nina e le altre pionieristiche “bandite”, lottare significava prima di tutto occupare spazi negati: “Nel 1969 corse la sua prima maratona senza iscrizione, senza numero, semplicemente accodandosi agli uomini”, racconta ancora Steve. “Eppure gli uomini l’accolsero volentieri: ‘Se sei un’atleta, puoi correre con noi’, dicevano”.
Nel 1970, Kuscsik fu la prima donna iscritta ufficialmente alla Maratona di New York. Dovette ritirarsi per un’influenza, ma il gesto ormai era compiuto. “Tra noi donne c’era una regola non detta”, ricorda l’amica Sarah May Berman, anche lei maratoneta: “Se partecipavamo a una maratona, dovevamo finirla. Altrimenti gli organizzatori avrebbero detto che non eravamo capaci, che il nostro fisico non reggeva”.
Il vero spartiacque arrivò nel 1972 quando finalmente, dopo anni di battaglie, il regolamento fu cambiato e alle donne fu concessa la possibilità di iscriversi ufficialmente alla Maratona di Boston. Quell’anno, Kuscsik fu la prima vincitrice donna riconosciuta. Ma la strada era ancora lunga: a New York, nello stesso anno, le atlete furono costrette a partire dieci minuti prima degli uomini. Per protesta si sedettero sulla linea di partenza, dimostrando che la loro corsa era qualcosa di più di una semplice competizione: era una battaglia per il riconoscimento e la dignità. Kuscsik fu anche tra le prime due americane a rompere il muro delle tre ore in maratona, una dimostrazione definitiva della resistenza e forza delle donne.
Fu anche importante protagonista della campagna per l’introduzione della maratona femminile ai Giochi Olimpici, un traguardo raggiunto solo nel 1984 con la vittoria di Joan Benoit a Los Angeles. “Quando Joan Benoit vinse, per mia madre fu come vedere trionfare una figlia”, ha raccontato Steve. E tutto questo mentre Nina lavorava a pieno ritmo in ospedale e cresceva da sola tre figli: “A volte ci lasciava giocare nel cortile mentre lei faceva il giro dell’isolato per allenarsi”, ricorda sempre il figlio.
Sarebbe riduttivo ricordare Nina Kuscsik solo come una collezionista di trofei – più di 80 maratone completate, decine di vittorie, primati temporali – perché ciò che davvero resta della sua storia è l’esempio, la forza silenziosa di chi si batte contro le regole ingiuste, e, in modo quasi naturale, allarga le possibilità di tutte le donne che verranno dopo. “La cosa di cui era più fiera era di aver contribuito a cambiare le cose – dice il figlio – anche se spesso la prendeva con umiltà e leggerezza.” Nel lungo, tortuoso cammino dell’emancipazione femminile, le conquiste nascono anche da piccole rivoluzioni e atti di coraggio come quello di Nina Kuscsik. La storia di Nina, e di tutte le altre pioniere della corsa femminile, ci ricorda che la libertà e i diritti non sono doni calati dall’alto, ma traguardi raggiunti a prezzo di fatica, sudore, determinazione – e spesso, con un paio di scarpette da running ai piedi.
pubblicato su il Cittadino del 10 luglio 2025









Lascia un commento