Lucrezia, Simone e la luna al contrario

Ho avuto il piacere di intervistare Lucrezia e Simone per il quotidiano il Cittadino (QUI sul sito del giornale), per raccontare la loro singolare luna di miele in Africa. Buona lettura!

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Maldive, Bora Bora, Zanzibar o Bali: sono queste alcune delle destinazioni più ricercate per un viaggio di nozze: spiagge bianchissime e mare cristallino, atmosfera esotica e ambiente stimolante. Il primo viaggio dopo il matrimonio ha un gusto particolare sicché si va alla ricerca di una meta che coniughi avventura e romanticismo, relax e panorami mozzafiato.

Lucrezia e Simone hanno fatto una scelta differente per il loro viaggio di nozze, scegliendo di passare la luna di miele in Zambia, in una missione della ONG “Africa Chiama” di Fano. “Stavamo organizzando il matrimonio e, insieme al classico pensiero sul viaggio di nozze, ci siamo detti che volevamo qualcosa con un significato più profondo. ci racconta SimoneIl “solo viaggio” ci stava un po’ stretto: desideravamo un’esperienza che ci rimanesse davvero, qualcosa da vivere e non solo da visitare. Così abbiamo iniziato a informarci sui campi di volontariato all’estero.” “Abbiamo quindi contattato diverse ONG tra Milano, Bergamo e Fano – continua Lucrezia – Africa Chiama ci ha colpiti subito: sono stati chiarissimi nel dire che il volontario non “va a salvare il mondo”, ma affianca personale locale e progetti già strutturati. Rispetto ad altre realtà più “pacchetto viaggio”, il loro approccio serio e formativo ci ha convinti.”

E così Simone e Lucrezia, dopo un periodo di formazione,  si trovano a metà luglio 2025 alla periferia di Lusaka, in Zambia, presso il Centro Shalom nel quartiere di Kanyama. Simone 33, è pedagogista nonché amministratore locale di Lodi Vecchio, da sempre attivissimo nel volontariato; Lucrezia, 29 anni, di Salerano ma lodivecchina di adozione, è laureata in lingue ed insegna nella scuola primaria (laureanda in  Scienze della Formazione Primaria).  

Il viaggio non è fatto in solitaria. Ci raccontano: “da Milano siamo partiti noi due e una neuropsichiatra. I primi giorni eravamo in pochi: noi, lei, una giovane coppia (lui sardo, lei olandese) e Ludovica, che aveva fatto il servizio civile lì l’anno prima ed è stata richiamata un paio di mesi per coordinare i volontari. Dopo due settimane sono arrivati altri sei ragazzi: da un momento all’altro in casa eravamo in 12.” E così da subito l’esperienza di coppia si allarga ed assume una dimensione più aperta e comunitaria.Eravamo un gruppo di età e provenienze diverse (Palermo, Roma, Puglia, Piemonte, Lodi…), con storie belle e particolari. Condividere tutta la giornata con sconosciuti spaventava, soprattutto nel passaggio da 6 a 12, ma lo spirito comune di mettersi in gioco ha fatto la differenza. Camere divise tra maschi e femmine, tanta collaborazione. È una delle cose più preziose che ci portiamo a casa.” Aggiunge Simone: “è stato bello vedere che non eravamo “casi isolati”, ma parte di un gruppo di persone (giovani e meno giovani) con la stessa voglia di Africa e di servizio, ci ha dato energia. La sera, a tavola, rielaboravamo le giornate insieme: un esercizio prezioso di ascolto e consapevolezza, che ha reso l’esperienza ancora più ricca.”

La realtà che trovano nella periferia di Lusaka non è certo facile: “Lusaka è la capitale di un paese povero, e i contrasti sono forti. Vedi gente impolverata in ciabatte che vende polli per strada, ma tutti hanno uno smartphone e l’app per chiamare i taxi. Sembra sia mancata una crescita graduale: alcuni “salti” a modernità convivono con servizi essenziali fragili. Si notano investimenti asiatici (tante Toyota, nuovi cantieri). A nord, verso l’aeroporto, viali alberati e case “finite”; andando a sud (Kanyama) le risorse calano, e parliamo di 30 minuti di distanza.

Simone e Lucrezia risiedono in un piccolo residence recintato, più tranquillo rispetto a Kanyama, con guardia notturna dove vivono famiglie locali ed alcuni stranieri. “Fuori dal cancello però iniziava subito la “realtà vera”: strada appena asfaltata, niente illuminazione. Dopo il tramonto non si cammina, si rientra in taxi; di giorno ci muovevamo anche a piedi. La corrente veniva tolta a rotazione nel tardo pomeriggio (verso le 17:30-18) e poteva tornare a mezzanotte, il mattino dopo o addirittura il giorno successivo. L’acqua arrivava da cisterne sui tetti, anche nelle zone “bene”. Ci si organizza con candele e torce. Il sole tramonta presto (intorno alle 18:30), si cena e si va a letto prima; sveglia all’alba, scuola alle 7. La gente del posto è abituata: niente drammi, si continua con quello che c’è

Il loro luogo abituale di servizio è il Centro Shalom che è il cuore dei progetti dell’ONG in città. Sono diverse le aree di intervento della ONG di Fano: nel centro è presente una scuola primaria e secondaria, con un modello misto in quanto molti docenti sono assunti dallo Stato, altri finanziati dall’ONG; molto forte è l’attenzione all’area dell’inclusione: due classi speciali per alunni con disabilità (una per bisogni più lievi, una per più severi), di solito con uno-due insegnanti. C’è anche un lavoro importante con studenti con disabilità uditive  (docenti specializzati) e visive: un insegnante di Braille insegna lettura e scrittura; infine diverse attività dedicate alla formazione professionale: percorsi brevi e un “orto didattico” esterno dove imparare sul campo. L’obiettivo è includere anche ragazzi con disabilità, con attività come orticoltura e piccoli allevamenti (polli, anatre).

Accanto alla parte educativa e sociale vi è pure una struttura sanitaria. Racconta Lucrezia: “all’interno del Centro c’è una clinica che offre vaccinazioni, analisi, test per la malaria, prevenzione sulle malattie sessualmente trasmissibili. Accanto c’è la maternità, gratuita: accoglie le mamme per il parto e, se necessario, grazie a un’auto-ambulanza acquistata dall’associazione, le trasferisce in ospedale. La maternità nasce anche per alleggerire il carico dell’ospedale principale, dove ci hanno detto nascono mediamente decine di bambini al giorno. Ricordiamo un parto seguito mentre eravamo lì: dopo solo mezz’ora la mamma stava già preparando la borsa per tornare a casa.”

Il contributo di Simone e Lucrezia si è principalmente concertato sulle attività educative e scolastiche: “Siamo stati soprattutto a supporto della scuola. Le scuole ospitano centinaia di bambini dai più piccoli ai più grandi perché la natalità è molto alta. Le scuole hanno classi piccole e sono insufficienti per ospitare tutti i bambini della capitale. Abbiamo affiancato gli insegnanti, in particolare nell’area della disabilità. Il principio era chiaro: il personale locale guida; noi diamo una mano, osserviamo, impariamo e ci inseriamo dove serve.” “La scuola Shalom dove eravamo noi aveva un’impronta anche italiana – racconta Simone -, molto organizzata e inclusiva, tanto che ci hanno detto che aspirano ad essere “la miglior scuola inclusiva dello Zambia”. Sono andato anche in una scuola molto più piccola, in un quartiere povero: lì c’erano solo quattro aule, i bambini tutti ammassati, poca luce, pochi docenti. C’era addirittura fuori un cartello “cercasi maestri”.

La presenza a Lusaka ha inoltre permesso a Simone e Lucrezia di conoscere altre realtà di solidarietà presenti nel territorio. “Un’altra realtà che abbiamo visitato è gestita da una ONG di Bergamo, che ha aperto una comunità per bambine e ragazze vittime di violenza, spesso subita all’interno della famiglia, da genitori o zii. Siamo stati lì per tre pomeriggi e abbiamo trascorso molto tempo insieme a loro. Queste ragazze avevano voglia di giocare, di ballare e partecipavano con entusiasmo alle attività che proponevamo. È stato davvero bello condividere con loro momenti di gioco e di serenità. Ho notato subito la differenza che può fare l’impronta data da un’educatrice italiana: la comunità è molto ben organizzata, con attività strutturate ogni giorno. Esiste anche una sorta di “hotspot” presso l’ospedale locale per intercettare sul nascere questi casi di violenza; poi, le ragazze vengono affidate alla comunità, in collaborazione con la polizia e i servizi sociali. Restano lì finché la loro situazione non si risolve, a volte anche fino alla testimonianza in tribunale contro i propri familiari. Ogni pomeriggio era diverso: c’era il laboratorio di cucito, si faceva scuola, si ascoltavano racconti e storie. Ci ha colpito anche il desiderio che avevano di rivederci: infatti ci chiedevano di tornare almeno una volta a settimana.”

Chiedo a Lucrezia e Simone cosa abbia significato per loro vivere questa esperienza come coppia di sposi: “In realtà la risposta forse è meno romantica di quanto ci si possa aspettare! Siamo sempre stati in gruppo: la vita era molto comunitaria, sempre circondati da altri volontari e dal lavoro. Di tempo passato da soli, insieme, ce n’è stato pochissimo. Forse solo adesso che siamo tornati, cominciamo davvero a metabolizzare e riflettere su cosa ha significato per noi due. Lì la vita era frenetica, tutto era scandito dai ritmi della giornata, dalla colazione fatta in tanti, ai due bagni in dodici persone, alle attività separate (lei più sulla parte didattica, io più mirato sulle disabilità). Però, in fondo, sento che la vera condivisione non è stata in ciò che abbiamo fatto uno a fianco all’altra, ma nel vivere la stessa esperienza, affrontandone la fatica, la sorpresa, le domande. Questo ci ha arricchito moltissimo sulla nostra vita di coppia.”

Le tre settimana vissute in Zambia hanno segnato la vita di coppia di Lucrezia e Simone: “È stata un’esperienza talmente ricca che non puoi rientrare e pretendere di averla già capita o assorbita del tutto. Di sicuro ci ha fatti crescere come coppia, perché ci siamo confrontati con una realtà completamente nuova, senza punti di riferimento noti. Qui ogni giorno era una scoperta. E anche dal punto di vista personale, hai proprio un altro modo di vedere le cose, la povertà, le difficoltà, tutto.”

Chiedo a loro di chiudere il racconto con qualche ricordo particolare. Ci dice Lucrezia: “Una cosa che mi ha colpito tantissimo è stata la luna: da loro la vedi a barchetta, “al contrario”, come se fosse un sorriso. La prima volta che l’ho vista era durante un safari, in piena notte, in mezzo alla savana.Forse è un po’ questo il dono principale di vivere qualche settimana nel cuore dell’Africa: non si cambia il mondo, non si fanno azioni eroiche ma si impara, semplicemente, a vedere “la luna al contrario”, ad osservare il mondo da un punto di vista nuovo ed inatteso, ad ammirare le cose da una prospettiva diversa. Forse il cambiamento e la rivoluzione del mondo partono proprio da questo cambio di visuale.

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