elogio della prevedibilità

«Quanto sei prevedibile!». Quante volte usiamo questa frase per etichettare qualcuno come banale, noioso, incapace di sorprenderci. In un mondo che esalta l’originalità, l’imprevisto, la rottura degli schemi, la prevedibilità sembra un difetto, una forma di mediocrità.

Eppure, come ricorda il filosofo e sociologo tedesco Niklas Luhmann (1927–1998), la prevedibilità è una delle condizioni fondamentali per la convivenza umana e per il funzionamento della società. Viviamo in un contesto che Luhmann definiva di complessità smisurata: in ogni momento, un’infinità di eventi e possibilità potrebbero verificarsi. Senza qualche forma di ordine o di anticipazione, saremmo travolti da un caos paralizzante. La prevedibilità serve proprio a questo: ridurre l’incertezza, selezionando alcuni scenari più probabili rispetto ad altri.

Non si tratta di conoscere il futuro, ma di escludere il caos e rendere così il mondo — e le nostre relazioni — abitabile. Secondo Luhmann, la chiave che consente di mantenere questa fragile architettura di ordine è la fiducia. Fidarsi significa anticipare che una persona o un’istituzione agirà in un certo modo, pur senza avere garanzie assolute. Ogni atto di fiducia restringe la gamma delle possibilità e costruisce un orizzonte stabile di aspettative. In questo senso, la fiducia non elimina il rischio: lo rende gestibile.

La prevedibilità agisce dunque su due livelli. Sul piano interpersonale, si fonda sull’esperienza e sulla continuità: prevedo come reagirà un amico, un collega, un familiare, perché nel tempo ho imparato a conoscere i suoi schemi di comportamento. Sul piano sistemico, invece, la fiducia e la prevedibilità vengono delegate a sistemi impersonali: il diritto, la scienza, la sanità, le banche, lo Stato. Ci affidiamo a essi non perché li conosciamo personalmente, ma perché crediamo nella loro affidabilità strutturale.

Luhmann osservava che le società tradizionali garantivano prevedibilità attraverso consuetudini, ruoli fissi, religione, tradizioni: ciascuno sapeva cosa aspettarsi dall’altro. Con la modernità, invece, questi riferimenti si sono indeboliti. La libertà individuale ha moltiplicato le possibilità, ma anche i rischi. Le istituzioni moderne devono dunque produrre fiducia in modo costante, perché solo così possono mantenere quella soglia minima di prevedibilità che consente loro di funzionare.

Ed è proprio qui che emerge uno dei tratti più problematici della nostra epoca. Viviamo in un tempo in cui la fiducia — nelle istituzioni, nei media, nella politica, perfino nei legami personali — si erode giorno dopo giorno. L’incertezza cresce, l’imprevedibilità si trasforma in sospetto, e il sospetto in paura. Il risultato è una società più fragile, più ansiosa, più incline al conflitto. Lo vediamo anche sul piano internazionale: relazioni decennali e consolidate si incrinano, il comportamento degli Stati diventa sempre meno prevedibile, e la politica estera sembra spesso guidata dal gesto clamoroso, dall’improvvisazione, più che da una visione coerente.

Forse dovremmo allora rivalutare il valore della prevedibilità, non come sinonimo di piattezza o mancanza di creatività, ma come fondamento della fiducia reciproca.

Sapere che l’altro manterrà la parola data, che le regole saranno rispettate, che i sistemi funzioneranno come promesso — è ciò che ci permette di vivere insieme senza precipitare nel disordine.

Essere prevedibili, oggi, può diventare un atto di responsabilità civile, un gesto silenzioso ma potente per restituire stabilità a un mondo che troppo spesso confonde la libertà con l’improvvisazione e la novità con l’incoerenza. La prevedibilità non toglie fascino alla vita: le dà struttura, continuità e, soprattutto, fiducia.

pubblicato su il Cittadino del 30 settembre 2025, QUI nell’edizione online

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