Il grido del profeta Abacuc, che oggi la liturgia ci consegna, sembra scritto per i nostri giorni. Benché risalga a più di ventisette secoli fa, quel testo potrebbe aprire l’editoriale di qualunque quotidiano contemporaneo, tanto è attuale l’invocazione di fronte al male e al dolore che travolgono il giusto. «Perché mi fai vedere l’iniquità e resti spettatore dell’oppressione? Ho davanti a me rapina e violenza, e ci sono liti e si muovono contese», lamenta il profeta con Dio, incapace di comprendere il Suo silenzio e la Sua inazione.
Non è forse anche il nostro grido?
Non è questa la stessa invocazione che si leva, oggi, da ogni angolo del mondo — da Gaza, dall’Ucraina, da tanti altri luoghi dimenticati — dove il dolore innocente continua a consumarsi? Non sentiamo anche noi, come Abacuc, l’impotenza di chi resta inerme davanti alla disgrazia che colpisce accanto a sé? «Fino a quando, Signore, implorerò aiuto e non ascolti? A te alzerò il grido: “Violenza!” e non salvi?».
Nel lamento del profeta riecheggiano le voci di credenti e non credenti, l’eterna domanda sul male che abita la storia e sull’apparente assenza di Dio. È l’angoscia che ci prende quando vediamo i bambini uccisi a Gaza, le famiglie in fuga da Kiev, i volti piegati di chi soffre senza colpa.
Dio risponde all’invocazione di Abacus, riconoscendo la serietà e la gravità della domanda; Dio appare inoperoso ma non disattento: Egli ascolta la preghiera del suo profeta, come a dire che la sua inazione non è certo disinteresse o lontananza. E nella risposta che affida al profeta assume una postura che disorienta — non quella di chi spiega, ma di chi promette. «Scrivi la visione e incidila bene sulle tavolette, perché la si legga speditamente. È una visione che attesta un termine, parla di una scadenza e non mentisce.»
Dio non spiega il perché del male, ma segna un limite, traccia una fine, impone una scadenza al dolore che ci sta soffocando. Fino lì e non oltre. E vuole che questo termine sia scritto in maniera chiara e visibile per chiunque leggerà le tavolette che custodiscono le parole che Egli sta dettando al profeta . Il Dio di Israele promette un “basta”, uno “stop”, un epilogo certo alla sofferenza e al dolore.
Vi è poi un incoraggiamento che accompagna questa promessa, un invito, un conforto, un pungolo: «se indugia, attendila, perché certo verrà e non tarderà». È l’atteggiamento dell’attesa che certo non è inoperosa rassegnazione; è l’atteggiamento di chi propizia tempi nuovi nella speranza, che si fa certezza, dell’affidabilità della promessa, della solidità dell’impegno, delle attendibilità del giuramento
Lo aveva capito benissimo un grande uomo come Tonino Bello, vescovo di Molfetta: «Nel Duomo vecchio di Molfetta c’è un grande crocifisso di terracotta. Il parroco, in attesa di sistemarlo definitivamente, l’ha addossato alla parete della sagrestia e vi ha apposto un cartoncino con la scritta: collocazione provvisoria. La scritta, che in un primo momento avevo scambiato come intitolazione dell’opera, mi è parsa provvidenzialmente ispirata, al punto che ho pregato il parroco di non rimuovere per nessuna ragione il crocifisso di lì, da quella parete nuda, da quella posizione precaria, con quel cartoncino ingiallito. Collocazione provvisoria. Penso che non ci sia formula migliore per definire la Croce. La mia, la tua croce, non solo quella di Cristo. Coraggio. La tua Croce, anche se durasse tutta la vita, è sempre “collocazione provvisoria”. Il calvario, dove essa è piantata, non è zona residenziale. E il terreno di questa collina, dove si consuma la tua sofferenza, non si venderà mai come suolo edificatorio»









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