lo strano caso dei “ricomincianti”

Sta accadendo qualcosa di inatteso nelle nostre comunità ecclesiali. È un fenomeno ancora sommerso, ma reale, visibile con maggiore chiarezza in alcuni Paesi come la Francia e il Belgio e che, silenziosamente, attraversa anche le nostre parrocchie. Un fenomeno che forse non avevamo previsto, e che merita di essere osservato con attenzione. Ha un nome che suona quasi poetico: il fenomeno dei “ricomincianti”.

I ricomincianti sono uomini e donne battezzati che, a un certo punto del loro cammino, si sono allontanati dalla Chiesa. Portano con sé una storia di fede interrotta, un sentiero lasciato a metà. Hanno mediamente tra i 35 e i 50 anni: età in cui la vita ha già insegnato qualcosa, tra gioie e delusioni, successi e ferite. Oggi tornano a bussare alle porte delle nostre comunità con una domanda precisa e disarmante: essere accompagnati in un percorso autentico di riscoperta della fede.

Pur arrivando da strade diverse, questi uomini e queste donne condividono un nucleo comune: una domanda di senso ed una sete di significato che nessuna società secolarizzata riesce davvero a zittire. È quella voce interiore che, prima o poi, torna a farsi sentire nel cuore umano.

Osservando questo fenomeno, credo che tutti noi siamo sollecitati su tre punti fondamentali.

Anzitutto, i ricomincianti ci ricordano che la secolarizzazione non coincide con il rifiuto della fede cristiana. Piuttosto, essa è il rifiuto di una forma storica di fede: quella che per secoli ha sostenuto la cristianità come sistema sociale e culturale dominante. Forse molti si sono allontanati non dal Vangelo, ma da un modo di essere Chiesa che aveva perso significato per la loro vita concreta. Oggi, con sorpresa, li vediamo tornare alla ricerca di qualcosa di più profondo, di più vero, di più personale. La secolarizzazione, paradossalmente, non ha ucciso la fede: l’ha purificata, spogliandola di sovrastrutture culturali e sociologiche, costringendola a mostrarsi per ciò che è davvero: una relazione viva, trasformativa, nutrita dalle domande autentiche di chi cerca un senso alla propria esistenza.

In secondo luogo, l’esperienza dei ricomincianti rappresenta una sfida pastorale decisiva. Essa ci obbliga a ripensare prassi, linguaggi e metodi di annuncio che col tempo si sono cristallizzati. Come accompagnare concretamente adulti che chiedono di ricominciare? Quali percorsi proporre a chi ha già una storia, delle resistenze, dei dubbi legittimi? I ricomincianti non hanno bisogno di un catechismo fatto di risposte preconfezionate. Hanno bisogno di un cammino che prenda sul serio le loro domande, che sappia ascoltare e aiutare a intrecciare lentamente la fede con la loro biografia personale.

Infine, questo fenomeno ci provoca a una conversione del nostro sguardo pastorale. Ci chiede di diventare più docili all’azione dello Spirito e meno dipendenti dalle nostre programmazioni e analisi sociologiche, pur necessarie.

A questo proposito, mi ha colpito una riflessione di Nico Dal Molin che cita André Foisson, teologo e catecheta gesuita belga. Foisson parla della tempesta “Lothar” che il 26 dicembre 1999 si abbatté sull’Europa centrale, in particolare nell’Est della Francia. Si stima che oltre 300 milioni di alberi siano stati abbattuti sul territorio francese. Un fenomeno estremo paragonabile alla tempesta “Vaia” che ha colpito le regioni del Nord-Est italiano nell’ottobre del 2018, con raffiche che hanno superato i 190 km/h e sradicato oltre 14 milioni di alberi, creando una ferita profonda nel territorio montano.

Dopo queste catastrofi naturali, gli uffici tecnici forestali hanno fatto quello che ci si poteva aspettare: hanno elaborato programmi di rimboschimento. Tutto perfettamente calcolato a tavolino. Ma quando hanno cominciato ad attuare questi piani, gli ingegneri forestali hanno fatto una scoperta sorprendente: la foresta li aveva anticipati. La rigenerazione naturale della foresta manifestava una biodiversità maggiore e un equilibrio ecologico migliore rispetto a quello che i piani avevano previsto. La natura aveva saputo riparare se stessa, e lo aveva fatto in modo più intelligente di quanto gli esperti avessero pianificato. Così, con grande saggezza, gli ingegneri forestali sono passati da un intervento rigidamente pianificato a un’azione molto più flessibile: quella di accompagnare intelligentemente la rigenerazione naturale dei boschi.

Non dovremmo forse fare lo stesso nella pastorale? Forse è tempo di passare da una pastorale dell’inquadramento,  dove tutto deve rientrare in schemi e programmi , a una pastorale dell’accompagnamento generativo, che si affidi al mistero della grazia all’opera nel cuore umano. In questo passaggio, teologico e spirituale insieme, si nasconde forse la più grande opportunità per le nostre Chiese europee: imparare a credere che lo Spirito sa rigenerare la foresta della fede meglio di quanto noi, con i nostri progetti, potremo mai fare.

pubblicato su il Cittadino del 21 ottobre 2025

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