Ho avuto il piacere di fare una lunga chiacchierata con Dario Leone, attore televisivo e teatrale, cresciuto nella mia stessa città ed ora giunto alla ribalta nazionale. L’intervista è stata pubblicata su il Cittadino del 22 ottobre 2025. Buona Lettura!
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Dario Leone è uno di quei lodigiani che si sono fatti strada sulla scena nazionale. Attore professionista, originario di Lodivecchio, Dario ha guadagnato una certa celebrità grazie ad alcuni spot pubblicitari. Ma le qualità di Dario vanno ben oltre gli spot e ne fanno un artista a tutto tondo, con uno straordinario spessore sociale e civile.
Da dove nasce la tua passione per la recitazione che ti ha reso famoso?
Beh, intanto “famoso” è una parola enorme (ride). Sì, ho fatto diversi spot, mi sono divertito molto, ma quelli servono soprattutto a pagare il mutuo. Il mio vero percorso d’attore nasce altrove, da una passione che ho coltivato in modo tutto mio, fuori dai circuiti accademici. Dopo il diploma mi sono iscritto all’università e contemporaneamente a una scuola di recitazione di Lodi, il Teatro dell’Immaginario che si incontrava nella palestra dello Spezzaferri a San Bernardo. Non esiste più oggi, ma all’epoca era insieme una scuola e una compagnia. Lì ho mosso i miei primi passi.
Quindi il tuo avvicinarti al teatro è stato quasi un esperimento?
Sì, mi ci sono iscritto per curiosità. Al liceo facevo già delle scenette con gli amici, ci divertivamo, ma volevo capire se la recitazione fosse qualcosa di più del semplice “fare il matto” tra compagni. E ho scoperto di sì: sul palco mi sentivo vivo in un modo che non avevo mai sperimentato prima. Così ho continuato con quel gruppo per alcuni anni, poi — grazie a una persona del collettivo — ho deciso di partecipare a Hystrio, un concorso nazionale per attori under 30. Andò bene, e da lì ho iniziato a studiare anche altrove, a Milano, alla Paolo Grassi, e con diversi maestri.
Non hai seguito un percorso accademico classico, quindi?
No, ho cercato io le persone con cui volevo studiare. Non avendo fatto l’accademia, mi sono costruito il mio percorso, tappando le mie lacune. Ho avuto la fortuna di incontrare maestri straordinari, come Gigi Proietti, con cui ho fatto un laboratorio a Roma di qualche settimana. È stato un momento importantissimo.
Ti ricordi la tua prima volta su un palco?
Sì, benissimo. Era una piccola rappresentazione del Teatro dell’Immaginario nella libreria Sommaruga, per la Giornata della Memoria. Ero lì da due o tre mesi e dovevo solo restare fermo in un punto. Ma quella prima volta mi è rimasta impressa: l’emozione, la sensazione di esserci. Poi arrivò Pinocchio, uno spettacolo che portammo in scena per alcuni anni in due versioni: la prima tutta muta, fatta solo di musica, gesti ed espressioni; la seconda “parlata”, più classica. All’inizio la versione muta mi sembrava noiosa — volevo “recitare”! — ma poi ho capito quanto mi avesse formato. Quel lavoro sulla presenza scenica mi ha dato un’impronta che porto ancora oggi, venticinque anni dopo.
In questi giorni di cosa ti stai occupando?
Sto organizzando la ripartenza di tre progetti teatrali. Il primo è “Bum ha i piedi bruciati – Spettacolo sulla vita di Giovanni Falcone”, che riparte proprio da Lodi, sul palco del Fanfulla, il 4 novembre alle 10 del mattino, con le scuole. Stiamo raccogliendo le adesioni in questi giorni. Poi c’è “La valigetta nascosta”, lo spettacolo con cui ho debuttato un paio d’anni fa. Racconta la storia di un pugile ebreo italiano arrestato dopo le leggi razziali. La vicenda è emersa di recente, quando è stata ritrovata la valigetta con cui andava di nascosto ad allenarsi. Quest’anno porteremo lo spettacolo anche a Mauthausen, il 9 marzo: metà della storia si svolge proprio lì. Sarà un momento molto intenso.
E il terzo progetto?
È ancora in fase embrionale, ma ci tengo molto. Si chiama “Degustando Storie” e unisce vino e letteratura. È un esperimento sensoriale: racconto una storia mentre il pubblico assaggia vini, ascolta, annusa, partecipa. Una forma di teatro multisensoriale. Avremo una data zero a fine ottobre, in una cantina dell’Oltrepò. È un inizio, ma ci credo molto.
Ti seguo anche sui social e ho l’impressione che l’impegno civile sia una parte essenziale del tuo lavoro. Ti vedo molto esposto, molto attivo nelle battaglie sociali e culturali. Come interpreti il tuo ruolo di attore in relazione a questo impegno?
Hai colto perfettamente. Io credo visceralmente nella responsabilità sociale del mio lavoro, nella sua funzione sociale, direi. Che tu sia attore, cantante o scrittore, se hai la possibilità di dire qualcosa, hai anche un dovere. L’intrattenimento fine a se stesso, per me, lascia un po’ il tempo che trova. Spesso mi capita di discutere con chi usa l’espressione “teatro civile”: io penso che tutto il teatro sia civile. Se racconti la società, se sali su un palco per condividere una storia, stai già facendo un atto civile, anche quando porti in scena Shakespeare. Oggi, poi, è inevitabile: tutto ciò che fai parla di ciò che senti e di ciò in cui credi. E quando hai la fortuna di stare su un palco, hai anche una responsabilità enorme — perché ci sono persone che ti ascoltano, studenti che ti guardano.
A proposito di responsabilità: in questi giorni assistiamo a eventi internazionali drammatici — penso alle guerre in Ucraina e a Gaza. Ti va di condividere un pensiero su ciò che sta accadendo?
Purtroppo è un momento che mi preoccupa moltissimo. Seguendo la situazione non posso non pensare agli anni che precedettero la Prima guerra mondiale, al clima che portò all’attentato di Sarajevo. Spero che abbiamo imparato qualcosa dalla storia, ma ho paura di no. Con amici e colleghi ne parliamo spesso: sentiamo tutti di vivere su un crinale pericolosissimo della storia. Sono andato alle manifestazioni di Milano in questi giorni, e avrei voluto essere anche a Roma. Mi ha colpito la straordinaria partecipazione popolare: segno che c’è ancora una coscienza viva, un riflesso morale. Forse non siamo ancora del tutto anestetizzati. Ma resta un periodo molto delicato. C’è una violenza diffusa, che parte dal linguaggio e finisce per tradursi in gesti concreti: dalle parole alle mani, dalle mani ai fucili. Gli ultimi episodi, come l’attentato alla sinagoga di Manchester, sono campanelli d’allarme terribili.
E guardando all’Italia — anche alla luce di questa tensione globale — come leggi la situazione del nostro Paese? Vedi più ombre o più luci?
La speranza, oggi, me la danno le piazze. Le manifestazioni di questi giorni, da Milano a Roma, hanno riempito le strade di persone comuni, e soprattutto di giovani. È un fatto nuovo e incoraggiante. A parte qualche episodio isolato, sono state reazioni pacifiche, mature. Mi ha sorpreso positivamente: forse non siamo così apatici come ci raccontiamo. E poi c’è questa generazione di ventenni che non solo vive sui social, ma sa usare i social, con più consapevolezza della mia. Noi, nati analogici, spesso non abbiamo filtri. Loro sì: sanno riconoscere meglio le bufale, hanno più anticorpi culturali.
Ciò che invece mi preoccupa è l’altra faccia della medaglia: siamo un Paese che legge poco, che partecipa poco, che tende a disinteressarsi della politica. L’altro giorno sentivo alla radio che molti manifestanti dicevano: “Finalmente una piazza senza politica”. E invece no: quella è politica, nel senso più autentico del termine — la partecipazione, la responsabilità civile, la costruzione di una comunità. Forse abbiamo dimenticato che cosa voglia dire davvero “fare politica”.
Il tuo impegno ti porta in giro per l’Italia, ma che rapporto mantieni con le tue origini? Ti senti ancora legato alla tua terra?
Moltissimo. Anche se non vivo più da tanti anni nel Lodigiano, torno appena posso. Domenica scorsa, per esempio, ero alla cascina Gualdane per il compleanno di mio padre, che ha compiuto ottant’anni.
Anzi, più passa il tempo e più sento forte quel legame. Quando avevo vent’anni mi stava stretto, come capita a tanti che crescono in provincia e vogliono “vedere il mondo”. Oggi, invece, riconosco quanto sia stata una fortuna crescere tra le cascine e i campi, tra fossi e zanzare, come direbbe Ligabue. Sono nato a Milano e cresciuto a Lodivecchio, ma mio padre è pugliese e mia madre calabrese: un miscuglio che sento profondamente mio.
Chiudiamo con una nota più personale. Chi è il Dario che non vediamo sul palco o sui social?
Un uomo fortunato, direi. Faccio il lavoro che amo, anche se mi è costato sacrifici. Viaggio molto, per lavoro e per scrivere, e ogni volta cerco di trasformare i luoghi in esperienze. E poi ho un legame viscerale con il mare. Si vede anche da quello che pubblico, lo so. È qualcosa che ho nel sangue: mio nonno era pescatore, e forse quel richiamo è rimasto. Appena posso, scappo verso l’acqua — è il mio modo per ritrovare un po’ di pace, per rimettere in equilibrio tutto il resto.









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