Quando una cifra sfiora i mille miliardi, come quella recentemente approvata per Elon Musk da Tesla, non stiamo più parlando di premi aziendali eccezionali, bensì di un segnale evidente sulla direzione che prende il capitalismo oggi. Tesla ha concesso al manager sudafricano un “pacchetto retributivo” decennale strutturato in dodici tranche che fissano soglie finanziarie e operative che consentono l’assegnazione di azioni del gruppo al patron di Tesla. Se dovesse raggiungere questi obiettivi, Musk potrebbe percepire oltre 1.000 miliardi di dollari, il più grande stipendio aziendale della storia
Una cifra così enorme provoca disorientamento e sconcerto, non solo per l’entità dell’importo, ma per ciò che esso rivela: nel sistema odierno, la ricchezza e il potere tendono a raccogliersi in pochissime mani superando abbondantemente ogni soglia ragionevole ed accettabile.
Per decenni abbiamo creduto che il turbo-capitalismo, accompagnato dal liberalismo sfrenato, potesse generare una crescita diffusa della ricchezza: più crescita, più opportunità, più benessere condiviso. E in parte ciò è avvenuto: la globalizzazione ha permesso ad ampie regioni di emergere dalla povertà estrema, grazie a investimenti, scambi e nuove tecnologie. Tuttavia, questa stessa dinamica ha alimentato una concentrazione senza precedenti di ricchezza e potere. Il paradosso è evidente: i progressi macroeconomici non si traducono automaticamente in miglioramenti significativi per la maggioranza. La percezione di una società in cui il bene comune viene sostituito dall’accumulo individuale è oggi palpabile.
Il caso Musk è emblematico: un uomo che possiede già una quota enorme del valore della sua azienda, riceve un premio che può superare il valore di intere economie nazionali. Se ci siamo cullati nella speranza che “il mercato” si sarebbe autoregolato, trovando in se stesso gli anticorpi contro le ingiustizie e le disuguaglianze, ci troviamo oggi a dover constatare che questa illusione si è tristemente sciolta come neve al sole.
Non è solo una questione di numeri. È una questione di fiducia: fiducia nelle istituzioni, nei mercati e nel principio che chi guida le aziende risponda anche a criteri di responsabilità sociale. L’esistenza di misure come controlli sui salari, trasparenza sui compensi e partecipazione dei lavoratori non sono solo strumenti di regolazione economica, ma condizioni per mantenere la legittimità del sistema.
In molte città del mondo, la politica ha iniziato a riflettere su questa sfida, basti pensare in concreto alla campagna elettorale che ha portato Mamdami a diventare il nuovo sindaco di New York. Idee come il controllo degli affitti, la riduzione del costo della vita o proposte di redistribuzione della ricchezza hanno guadagnato terreno non perché siano panacee, ma perché segnalano una richiesta di bilanciamento tra crescita individuale e benessere collettivo.
Il capitalismo resta, nondimeno, una forma di ordine sociale che ha mostrato una straordinaria capacità di innovazione e creazione di opportunità. Ma non può trasformarsi in uno strumento di privilegio assoluto. Se la ricchezza è strumento di progresso condiviso, allora è lecito chiedersi quali regole e quali pratiche rendano possibile tale redistribuzione: limiti proporzionati ai compensi, maggiore trasparenza, partecipazione effettiva dei lavoratori, tassazione equa e investimenti pubblici mirati. La sfida non è facile, ma è necessaria.
In fondo, la notizia del compenso record di Musk non riguarda solo una singola azienda o una singola persona: è un campanello d’allarme sullo stato della nostra convivenza economica. Se il mercato non si autoregola per garantire una giusta distribuzione, allora è compito della politica, della società civile e delle aziende stesse costruire strumenti concreti per recuperare fiducia e coesione. Oggi la sfida è chiara: far sì che la ricchezza non sia solo accumulo, ma strumento di progresso condiviso. O la fiducia nei mercati, nella democrazia e nella società stessa rischia di venir meno.
pubblicato su il Cittadino del 12 novembre 2025









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