forse servirebbe un po’ di umiltà…

È innegabile: i social ci trasmettono, spesso senza che ce ne rendiamo conto, una sorta di illusione di onnipotenza. In nome di questa sensazione ci sentiamo autorizzati a dire qualunque cosa, a esprimere giudizi immediati, a condividere “a caldo” ogni pensiero che ci attraversa la mente. Fino a qualche anno fa certe considerazioni le avremmo confidate solo al partner, a un amico fidato, forse neppure a loro. Oggi, invece, le sbandieriamo davanti a chiunque, senza pudore e senza senso del limite.

Sfogliando i social in questi giorni, mi sono imbattuto nei commenti sul caso dei fratellini allontanati dalla loro famiglia in provincia di Chieti. La decisione è stata presa perché, secondo i servizi sociali e il tribunale, i genitori sarebbero temporaneamente incapaci di prendersi cura dei figli. La famiglia viveva in un bosco, senza acqua corrente, gas o elettricità. I bambini non frequentavano la scuola dell’obbligo e, com’era prevedibile, in casa non esiste alcun dispositivo tecnologico.

Questa vicenda ha scatenato una valanga di giudizi feroci: non solo da utenti comuni, ma anche da politici e opinionisti ansiosi di cavalcare l’onda emotiva. Comprendo l’impatto che notizie del genere possono avere. Ma proprio perché si parla di minori, servirebbero maggiore prudenza e sobrietà. Le decisioni non sono state prese da un algoritmo o da una folla improvvisata: sono frutto del lavoro di giudici, psicologi, assistenti sociali e professionisti che hanno studiato il caso e valutato le alternative possibili.

Non sto affermando che abbiano necessariamente ragione. Sto ricordando che dispongono di informazioni che noi non abbiamo, ben più di quelle offerte da un articolo striminzito o da un servizio televisivo di due minuti. Viviamo in uno Stato di diritto, e questo significa che ogni decisione può essere contestata: tutti i protagonisti del caso hanno la possibilità di fare ricorso, appellarsi e chiedere che la loro situazione venga rivalutata da altri giudici e professionisti. Non siamo davanti a un verdetto definitivo né a un’ingiustizia insindacabile, ma a un percorso previsto dalla legge proprio per tutelare le persone coinvolte e, prima di tutto, i minori.

Abbiamo già vissuto una tempesta mediatica simile: Bibbiano. In quel caso sono state distrutte reputazioni e carriere sulla base di supposizioni e indignazione istantanea. Solo anni dopo si è accertata la completa innocenza di molti degli operatori coinvolti. Ma intanto il tritacarne mediatico aveva fatto il suo lavoro.

I social ci educano alla reazione “di pancia”, disincentivano la fatica dell’approfondimento, della complessità, del dubbio. Ci trascinano in una logica binaria fatta di buono/cattivo, giusto/sbagliato, mi piace/non mi piace, con un linguaggio povero e un pensiero semplificato, incapace di cogliere le sfumature della realtà.

Forse potremmo pretendere da noi stessi — e da chi commenta per professione — un po’ più di serietà, prudenza e umiltà, soprattutto quando parliamo di vite altrui, e ancor più quando si tratta di bambini di cui sappiamo pochissimo. La complessità merita rispetto: non si può ridurre a un tweet indignato o a un post come sfogo del momento.

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