Ecco il mio editoriale per il Cittadino del 26 Novembre 2025
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La vicenda di Chieti, dove tre bambini sono stati temporaneamente allontanati dai genitori, ha scosso l’opinione pubblica come un sasso lanciato in uno stagno. In poche ore sono esplose polemiche, giudizi e prese di posizione. Al centro della storia, una famiglia che ha scelto una vita radicalmente alternativa: una casa fatiscente nel bosco, senza acqua, luce, riscaldamento né servizi igienici; niente scuola, niente pediatra, niente contatto con le istituzioni. Una scelta che i genitori definivano “libera”, ma che ha sollevato la domanda più difficile di tutte: può la libertà degli adulti estendersi fino a mettere in discussione la tutela dei figli?
Qui lo scontro è inevitabile: tra la volontà di crescere i propri bambini secondo un modello personale – anche anticonvenzionale – e il dovere dello Stato di garantire condizioni minime di sicurezza educativa, sanitaria e abitativa. Dove finisce l’autonomia genitoriale e dove inizia il diritto dei minori a essere protetti? E come bilanciare questi diritti senza trasformare lo Stato in un guardiano onnipresente, o al contrario in un osservatore distratto?
La risposta non è semplice. Perché se uno di quei bambini si fosse gravemente ammalato o se quella struttura non a norma avesse provocato un incidente, quante voci avrebbero accusato i servizi sociali di aver “guardato altrove”? Quando non si interviene, si grida al disinteresse; quando si interviene, si parla di “invasione dello Stato”. La tutela dei minori oscilla, sempre, tra questi due estremi: proteggere senza espropriare, vigilare senza violare. È un equilibrio fragile, che richiede tempo, competenze, verifiche, e un dialogo costante con le famiglie, anche le più “diverse”.
Su una questione così delicata, a complicare tutto è arrivata la tempesta emotiva dei social: giudizi istantanei, indignazione urlata, slogan sulla “famiglia naturale sotto attacco”, interventi politici a effetto immediato. È il trionfo della semplificazione, della risposta rapida a problemi che rapidi non sono. Eppure le decisioni su questi casi non nascono da un titolo di giornale, ma da mesi di lavoro di assistenti sociali, psicologi, magistrati minorili. Professionisti fallibili, certo, ma impegnati a valutare situazioni complesse ben oltre ciò che una foto o una notizia possono raccontare.
Il caso Bibbiano dovrebbe averci insegnato qualcosa: un intero sistema di operatori fu accusato brutalmente, salvo poi scoprire che non esistevano rapimenti di Stato né complotti contro i genitori. Ma ormai la macchina del sospetto aveva distrutto reputazioni e vite. Perché la condanna pubblica arriva sempre prima delle sentenze, e dura molto più a lungo.
Per questo, quando parliamo di minori, la prima forma di tutela dovrebbe essere la sobrietà: riconoscere che non conosciamo tutti i dettagli di una certa situazione, evitare l’istinto del giudizio immediato, rispettare le procedure e la competenza di chi opera nel silenzio, lontano dalle telecamere.
In una società che pretende risposte fulminee a problemi complessi, forse il gesto più responsabile è fermarsi. Aspettare. Ascoltare. E ricordare che, se davvero vogliamo proteggere i bambini, dobbiamo farlo con rigore, non con rabbia. Con prudenza, non con slogan. Con rispetto, prima di tutto.









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