Attorno alle questioni davvero importanti si formano spesso nubi di polemica che, più che illuminare, oscurano il problema. Il recente dibattito sull’introduzione dell’educazione sessuale nelle scuole italiane ne è un esempio lampante: invece di un confronto serio e informato, si è subito passati alla logica delle barricate, con due fronti contrapposti più desiderosi di affermare la propria posizione che di trovare un punto di incontro.
Da una parte c’è chi considera l’educazione sessuale a scuola uno strumento imprescindibile per prevenire la violenza di genere e accompagnare le nuove generazioni a un rapporto più sano con l’affettività, il consenso, il rispetto. Dall’altra parte c’è chi teme che questa proposta possa essere il cavallo di Troia per introdurre nelle scuole italiane la cosiddetta “teoria del gender”, invocando il primato educativo della famiglia, anche quando, come purtroppo spesso accade, proprio la famiglia si dimostra priva degli strumenti culturali ed emotivi per accompagnare ragazzi e ragazze su temi così delicati.
In questo clima incandescente, la possibilità di un confronto sereno si assottiglia. E le recenti dichiarazioni del ministro Roccella e del ministro Nordio, segnate da toni e categorie semplicistiche, non hanno certo aiutato a mantenere la discussione su un terreno costruttivo. La questione, invece, meriterebbe un’attenzione ben più rigorosa. Vorrei proporre due semplici pensieri.
Il primo: negare l’utilità dell’educazione sessuale significa, in fondo, negare il ruolo stesso dell’educazione. Da sempre la scuola ha il compito di modificare il comportamento naturale dell’essere umano attraverso conoscenze, valori e competenze, orientandolo verso atteggiamenti più maturi, responsabili, umanamente più ricchi e socialmente accettabili. Pensare che questo valga per ogni disciplina – dalla storia alla cittadinanza, dall’educazione civica all’alfabetizzazione digitale – ma non per l’educazione sessuale è una contraddizione evidente. È impossibile sostenere che la cultura influenzi la vita degli individui in tutti gli ambiti, tranne in quello affettivo e corporeo.
Secondo punto: dobbiamo però evitare l’errore opposto. Conoscere non significa automaticamente comportarsi in modo adeguato. L’idea, di matrice greca, che “sapere il bene” equivalga a “fare il bene” è stata confutata da tutta la tradizione cristiana e, in modo ancora più radicale, dalla psicoanalisi. Come ha ricordato di recente Massimo Recalcati, persino san Paolo nella Lettera ai Romani confessa: “Non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio”. È una domanda inquieta e profondissima: perché l’essere umano, pur sapendo ciò che lo farebbe stare meglio, tende a scegliere ciò che lo ferisce? Perché conoscenza e comportamento viaggiano spesso su binari diversi?
Per questo un’educazione che si limiti a fornire informazioni, per quanto necessarie, risulterà sempre parziale. Serve, come ci ricorda il noto psicanalista, qualcosa di più profondo: la testimonianza reale degli adulti. I ragazzi devono poter vedere, nei propri genitori o in qualunque adulto significativi, che è davvero possibile amare senza usurpare, desiderare senza ferire, volere senza ricattare, scegliere senza manipolare. Devono poter toccare con mano che esistono relazioni non fondate sul dominio o sulla paura, ma sul riconoscimento pieno della libertà dell’altro. Serve l’esempio concreto di chi conosce la fatica di amare ma non la trasforma in violenza o inganno. Testimonianza reale, non chiacchiere, non proclami, non moralismi senza corpo.
L’educazione sessuale non può sostituire questa dimensione, ma può integrarla, sostenerla, darle un linguaggio. Può offrire strumenti per comprendere ciò che altrimenti resterebbe confuso; può dare ai giovani parole per nominare il desiderio, la paura, il limite, il rispetto. Può aiutare a prevenire abusi, dipendenze affettive, dinamiche tossiche che spesso nascono proprio dal silenzio e dall’ignoranza.
Se vogliamo davvero proteggere i giovani, dobbiamo smettere di trasformare ogni proposta educativa in un terreno di scontro ideologico. La scuola non è un campo di battaglia tra identità contrapposte, ma il luogo dove un Paese decide chi vuole diventare. E un Paese cresce non solo grazie a programmi scolastici ben costruiti, ma soprattutto grazie a adulti capaci di incarnare ciò che chiedono alle nuove generazioni.
pubblicato su il Cittadino del 2 dicembre 2025









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