verso Boonton

Il primo vero contatto con la terra americana non avviene all’uscita dall’aeroporto, né davanti allo skyline di Manhattan o alle palme californiane. Avviene dietro un vetro, davanti a un ufficiale dell’immigrazione.

È una figura che incute un rispetto quasi ancestrale. Che sia un gigante di oltre due metri dalla pelle scura o una minuta signora di mezza età che, in qualunque altro contesto, inspirerebbe simpatia e fiducia, non fa alcuna differenza: dietro quel vetro, chiunque diventa un’autorità assoluta. E incute timore. Un timore che nasce dalla consapevolezza che quella persona ha, in un certo senso, potere di vita o di morte sul tuo ingresso negli Stati Uniti. Basta un suo dubbio, un’incertezza, e l’intero viaggio può finire lì.

Forse è proprio per questa percezione universale che, davanti alla fila del “Customs”, regna un silenzio quasi religioso. Nessuno parla. Nessuno alza la voce. Ogni gesto è calibrato, ogni parola è sussurrata. I movimenti sono lenti, misurati, studiati. Tutti sono attenti a non innervosire l’uomo (o la donna) oltre il vetro. Si attende il proprio turno con pazienza, con un filo di ansia che si cerca accuratamente di mascherare, come se anche un’espressione preoccupata potesse essere mal interpretata.

Arriva poi il tuo momento. Ti muovi con prontezza, ma non troppa. Non vuoi sembrare nervoso, né eccessivamente sicuro di te. Sfoderi un sorriso di circostanza, quel mezzo sorriso internazionale che dovrebbe comunicare: “Non sono un problema”. Poi arrivano le domande, sempre le stesse: “Perché siete qui?, Dove alloggerete? Per quanto tempo resterete? Siete già stati negli Stati Uniti?” Domande banali, certo. Eppure, pronunciate in quell’americano stretto, circondate da quell’atmosfera di controllo, assumono il tono di un vero e proprio interrogatorio. Ti ritrovi lì, davanti al banco, con la schiena rigida, i muscoli tesi, le orecchie spalancate per cogliere ogni parola. Cerchi di mascherare la paura con un’aria pacata, quasi amichevole.

L’ufficiale sfoglia il tuo passaporto. Lo rigira, lo osserva, digita sulla tastiera con ritmo secco. Ti scruta come se fossi un quadro di Van Gogh da analizzare nei dettagli. I secondi si allungano, diventano minuti. Il tempo sembra incepparsi.

E poi, tutto accade all’improvviso. Con un gesto rapido ma preciso, ti restituisce il passaporto. Accenna un mezzo sorriso e borbotta un “Enjoy your stay”, seguito rapidamente da un “Next!”

Il cuore torna a battere normalmente, la tensione si scioglie, l’ostacolo è superato. Ed è in quel momento, varcato finalmente il confine, che capisci davvero di essere arrivato negli Stati Uniti. Dopo quell’attesa, quel vaglio, quella prova quasi iniziatica, hai la sensazione di toccare finalmente la Terra Promessa.

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