Secondo i dati del Ministero dell’Interno, nel 2025 in Italia vivono circa 31.000 minori fuori famiglia. La definizione è volutamente ampia: comprende situazioni molto diverse tra loro, dagli affidamenti familiari ai collocamenti in comunità educative. A queste presenze va aggiunto un capitolo a parte, quello dei minori stranieri non accompagnati, cioè bambini e ragazzi giunti nel nostro Paese senza un genitore o un tutore legale. Parliamo di circa 17.000 giovani. Il totale si aggira quindi intorno ai 47.000 minori, un dato che resta difficile da fissare con precisione, tanto fluide e complesse sono le situazioni che vi rientrano.
Il numero, nella sua nuda freddezza, dà subito la misura di un fenomeno enorme e articolato. Indica l’entità del bisogno, ma racconta anche, almeno in parte, la quantità di energie umane, culturali ed economiche necessarie per affrontarlo. Dietro ogni cifra, infatti, c’è una storia: bambini e adolescenti allontanati dal proprio nucleo familiare per ragioni dolorose, percorsi fragili e delicati, sofferenze molto diverse tra loro ma tutte reali. Ogni minore ha una storia unica, fatta di fragilità personali, ferite emotive, esperienze traumatiche e, spesso, di un passato che nessuno avrebbe voluto vivere.
Eppure, parlando con chi opera quotidianamente nelle comunità di accoglienza, emerge un paradosso che dovrebbe farci riflettere: il problema, oggi, non è solo – e forse nemmeno principalmente – quello delle risorse economiche. È un problema culturale, prima che finanziario. È la difficoltà di riconoscere pienamente il valore sociale e umano di chi lavora con questi ragazzi, la complessità dei percorsi educativi e relazionali, e l’urgenza di costruire una società capace di comprendere che investire sull’infanzia non è una spesa, ma un atto di civiltà e un investimento sul futuro.
Un esempio aiuta a comprendere meglio questa dinamica. Nel 2025, secondo le rilevazioni disponibili, il costo medio di un giorno di ricovero ospedaliero varia da un minimo di 375 euro fino a oltre 1.400 euro per i casi più complessi, come la terapia intensiva. Anche la spesa media giornaliera per una persona detenuta si attesta attorno ai 150 euro, includendo personale, logistica, servizi e assistenza. Di fronte a questi importi, nessuno si scandalizza. Possiamo discutere sull’efficienza del sistema, certo, ma è generalmente accettato che sanità e giustizia penitenziaria abbiano costi elevati, perché garantiscono diritti fondamentali e proteggono beni essenziali della società.
Eppure, quando si apprende che una giornata in una comunità per minori costa in media 151 euro, la reazione pubblica cambia improvvisamente tono. Quel costo, che comprende personale educativo e psicologico, vitto, alloggio, percorsi scolastici e rieducativi (nella misura e nei termini stabiliti dalla legge), diventa improvvisamente sospetto. Per molti, troppo spesso, assume l’odore del profitto indebito, di presunti affari nascosti, di un sistema che “ci guadagna” sui bambini. È quasi automatico pensare che dietro quei numeri ci siano sprechi o interessi opportunistici, mentre in realtà si tratta di cifre che coprono un lavoro estremamente complesso e delicato, che richiede personale qualificato, continuità educativa, strumenti psicologici, sostegno scolastico e attenzione alla salute. Ogni euro speso è destinato a garantire la cura e la protezione di esseri umani vulnerabili, che hanno diritto a crescere in sicurezza, a ricevere attenzione e a vedere rispettata la propria dignità.
Perché accettiamo senza esitazioni il costo della cura ospedaliera o della detenzione, mentre mettiamo in dubbio il valore e il costo della cura educativa? Forse la difficoltà a riconoscere il valore della cura educativa e la gratuità e la generosità che spesso le sono associate nasce proprio dall’incapacità di vedere l’investimento che essa rappresenta nel futuro. Accogliere e accompagnare un minore significa non solo rispondere a un dovere di giustizia verso una persona in crescita che ha diritto a una cura educativa commisurata ai propri bisogni; significa anche investire nella qualità delle relazioni sociali, nella salute della convivenza civile e nella capacità della società di prevenire dinamiche disfunzionali. È un investimento preventivo, che evita di dover affrontare successivamente costi ben più alti sotto forma di esclusione, devianza, disagio sociale o conflitti.
Riconoscere questo valore significa comprendere che ogni euro speso, ogni ora di lavoro educativo, ogni percorso individualizzato, non è una semplice spesa, ma un contributo concreto alla costruzione di una comunità più solida, più coesa e più responsabile. La cura educativa non produce immediatamente risultati tangibili, ma il suo frutto è ciò che garantisce il futuro della società nel suo complesso.
pubblicato su il Cittadino del 10 dicembre 2025








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