Sbarcare ad Ellis Island assomiglia a fare un salto indietro nel passato di più di cento anni. L’isolotto è un piccolo pezzo di terra in mezzo al mare di fronte all’isola di Manhattan. Qui, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, sbarcarono circa dodici milioni di persone desiderose di entrare negli Stati Uniti. Sull’isolotto infatti venne costruito un centro di accoglienza e di controllo per tutti gli emigrati in cerca di fortuna nel Nuovo Mondo: qui avvenivano le iniziali procedure di identificazione, controllo medico e la valutazione dei singoli viaggiatori che, se ritenuti idonei, potevano sbarcare a New York. Sull’isola si trova oggi la vecchia struttura di accoglienza trasformata in museo dove è ancora possibile incontrare alcuni dei volti di quei migranti, ritratti in una serie commovente di fotografie esposte. Si fa così conoscenza di una umanità davvero varia che sbarcò nella piccola isoletta in cerca di fortuna, gente da ogni dove, bianchi e neri, ricchi e poveri, istruiti e analfabeti, onesti e pregiudicati, gente in fuga dalla povertà o persone semplicemente in cerca di una condizione migliore di vita. Ellis Island si trasformò, all’apice della sua storia, in un piccolo microcosmo in cui si coagularono razze, lingue, credi religiosi, idiomi, etnie ed usanze, tutte accumunate dal desiderio condiviso di sbarcare nella terra promessa.
Tutti coloro che giungevano sul posto venivano sottoposti a precise – anche se, con lo sguardo di oggi, sommarie – procedure di accoglienza e valutazione: ad una prima visita medica (alla ricerca di eventuali malattie contagiose) seguiva una valutazione psicologica (per identificare possibili casi di disabilità mentale), quindi un controllo giudiziario (molti i pregiudicati che cercavano un riscatto in America). Coloro che non superavano immediatamente i primi controlli venivano ricoverati, se malati, nell’ospedale dell’isola, oppure trattenuti negli ambienti del carcere, oppure sottoposti a giudizio nei casi dubbi e controversi. Il tutto seguiva una procedura legale precisa e definita, a cui a ciascuno veniva garantito il diritto di appello affinché i propri diritti potessero venire riconosciuti.
Nonostante il procedimento un po’ approssimativo, colpisce la cura e l’attenzione che lo stato americano destinava a questi migranti che cercavano fortuna sul proprio suolo: i controlli e le cure mediche, la valutazione psicologica e giudiziaria e la tutela legale dei viaggiatori rappresentano alcuni elementi significati di quell’immenso fenomeno migratorio che caratterizzò Europa ed America a cavallo dei due secoli. Scrisse Emma Lazarus: “datemi le vostre stanche, povere masse accalcate, bramose di vivere libere, i miserabili rifiuti dei vostri lidi brulicanti” (The New Colossus, 1883). Sappiamo bene quanto il popolo italiano contribuì a incrementare quel flusso di disperati, gente che partiva dall’Italia in cerca di opportunità, di lavoro e di benessere. Molti dei nostri bis o tris nonni sbarcarono in quei lidi, attraversano quei cancelli e si sottoposero a quelle pratiche di accoglienza che, per quanto dure e faticose, garantirono loro un domani di speranza.
Quando osservi oggi i volti di quei figli e figlie, fratelli e sorelle, padri e madri, nonni e nonne, ritratti sui grandi pannelli esposti su Ellis Island, comprendi che cosa per loro abbia significato lasciare la loro terra, i loro legami, la loro casa e sfidare, senza alcuna certezza, l’immenso oceano: il desiderio di un nuovo inizio. L’accoglienza verso chi emigra, chi si sradica per svariati motivi dalla propria terra, non è un gesto di commiserazione o pena, ma la scelta di offrire una seconda possibilità, una seconda opportunità, un’ulteriore occasione a chi dalla vita ha ricevuto poco. Forse la grandezza degli States in quel particolare periodo storico dipese proprio da questo: dalla capacità di trasformare la disperazione in una seconda opportunità personale e sociale, di tramutare il desiderio di felicità in un progetto di convivenza ispirato dall’ideale della libertà e del progresso. Ellis Island ha rappresentato la terra promessa per un intero popoli di migranti, un approdo possibile per il loro esodo personale e familiare, l’attracco dopo un viaggio periglioso attraverso le difficoltà della vita. Calpestare oggi la sua terra ci rende ancora più consapevoli di quanto, pochi decenni fa, fossimo noi gli immigrati che bussavano alle porte, che sbarcavano sulle spiagge e che chiedevano un futuro per la vita dei propri figli. Dovremmo sforzarci di non dimenticarlo.
Pubblicato su Il Cittadino del 28 Luglio 2023
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