L’estate è il tempo propizio per godere di un po’ di arte: le vacanze al mare, in montagna o in qualche città sono una buona occasione per apprezzare qualche briciola di quell’immenso patrimonio artistico di cui il nostro Paese e il Vecchio Continente sono davvero ricolmi. Un museo, una galleria, una mostra, un sito archeologico, una chiesa, un palazzo o un parco sono luoghi in cui è possibile allenare il nostro sguardo a contemplare la bellezza delle cose, uno spazio in cui, direbbe Agostino, passare dalla logica dell’utor, ossia dell’usare e del consumare, a quella del fruor, ossia del fruire liberamente e del godere con gioia.
Benché, come italiani, viviamo letteralmente immersi nella produzione artistica (è stupefacente pensare che il settanta per cento del patrimonio UNESCO dell’umanità sia concentrata in Italia), non è raro che il nostro rapporto con l’arte resti un poco confinato nell’ambito del piacere estetico: certo un Picasso, un Raffaello o un Van Gogh hanno creato dei veri capolavori ma le loro opere appartengono a quella categoria del “superfluo” che le ce la fa sentire come oggetti accessori, ridondanti, in fondo marginali rispetto al nostro vivere. L’opera d’arte è qualcosa da ammirare, da contemplare, ma afferisce poco a quanto sentiamo come necessario alla nostra vita, a quanto è essenziale per la nostra esistenza, a ciò di cui non potremmo fare a meno per restare uomini.
Ho dovuto ricredermi rispetto a questa percezione comune dopo una recente visita ad una famosa pinacoteca. Vagabondavo tra numerosi capolavori dell’inizio del secolo scorso quando la mia attenzione è stata sequestrata da uno straordinario quadro di Van Gogh, denominato “I Primi Passi”. È un’opera celeberrima dell’artista olandese che ritrae, con il suo inconfondibile stile, una deliziosa famigliola all’interno dell’orto: il padre, dopo aver abbandonato sul terreno la vanga da lavoro, spalanca le braccia alla figlia che, sostenuta dalla madre, muove i primi passi verso di lui. La scena è di una dolcezza estrema, che l’occhio e la mano dell’artista sanno immortalare con una straordinaria efficacia. Ebbene: mi trovavo ad ammirare questo dipinto quando alla mia sinistra sento una forte esclamazione di gioia, un sussulto, un grido, cosa assai inconsueta in una mostra di quadri, dove regna un religioso silenzio. Lo stupore aumenta quando riconosco che questa espressione di stupore giunge da un’anziana signora dal volto sottile, i capelli bianchi e occhi gentili segnati da profonde rughe. La donna di avvicina insieme a due giovani nipoti che la stanno accompagnando. In un inglese dalla chiara inflessione californiana, la donna ripete più volte la sua meraviglia: “Non posso credere che sia proprio l’originale!” L’anziana donna è profondamente commossa, qualche lacrima le solca il viso e non fa che indicare ai nipoti il quadro, incredula di avere un così grande capolavoro davanti agli occhi. Siamo a pochi centimetri di distanza e la signora pare non riprendersi da quell’inatteso stupore. Non resisto alla tentazione di chiedere alla visitatrice il motivo di una così grande emozione, che stupisce, in egual modo, me ed i suoi familiari. La donna, in un racconto concitato ed emozionato, mi riferisce che il nonno, moltissimi anni fa, le aveva mandato una copia di quel quadro (cosa assai costosa per il tempo) e che aveva custodito quell’immagine come dono prezioso ed unico. Il solo pensiero di avere ora di fronte l’originale era un fatto che la riempiva di immensa gioia. In realtà vengo presto a sapere che dietro l’emozione della donna c’è dell’altro: la nipote mi informa che la signora è diventata da poco bisnonna e che la nipotina sta iniziando a muove i primi passi proprio in quei giorni. Davvero straordinario!
Quel quadro, dipinto più di cent’anni fa da un artista olandese, è divenuto per quella donna il filo rosso che ha saputo cucire gli eventi della sua vita. In quelle pennellate vi è il passato della donna, le sue origini, gli affetti che sono alla radice della sua esistenza ma pure il suo futuro, la sua discendenza, quanto sopravviverà anche dopo la sua morte. Quel quadro non è più una tela intrisa di colore ma è un simbolo capace di coagulare, in un solo istante, il senso di una esistenza, il passato, il presente ed il futuro di una vita. Quelle braccia spalancate del padre che accoglie la figlia che muove i primi passi, le braccia premurose della madre che sorreggono la piccola, la terra vangata dalla fatica del contadino, il carro, gli alberi, la casa ed il cielo, divengono un punto di osservazione della vita, il gesto in cui si condensa l’atto stesso del vivere per quella donna. Quel quadro racconta l’origine da cui lei proviene, i primi passi che ha compiuto nella vita, le relazioni primarie che l’hanno sostenuta nel cammino, così come pure il grembo da cui è nata nuova vita, da cui è sbocciato l’avvenire per lei. Forse è questa la forza dell’arte: quella di saper raccontare quello che nessuno di noi saprebbe dire di se stesso. Non siamo noi ad ammirare un’opera d’arte, ma è lei che racconta la nostra vita, interpreta il nostro vissuto, dà parola a quanto non siamo capaci di dare espressione. L’arte è un condensato di umanità, è una finestra attraverso cui possiamo osservare e ammirare la bellezza e la profondità del reale, la densità della nostra esistenza, il miracolo delle cose che ci accadono.
Questo articolo è stato pubblicato su Il Cittadino del 11 Agosto 2023









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