Italia Svizzera, tre a zero. Il risultato era piuttosto scontato dato che stiamo parlando della nazionale femminile di pallavolo impegnata nei campionati europei. La squadra di Egonu, Danesi, Sylla e socie ha lasciato davvero poco spazio all’avversario, imponendosi per gioco, tecnica, carattere e collettivo. Se il risultato non aveva nulla di inatteso quello che invece sorprende sempre è il clima di gioia ed euforia che si crea attorno alle ragazze del volley: il palazzetto dello sport di Monza, che ospitava l’evento, ha tributato al team italiano un’accoglienza ed un tifo davvero straordinari. L’entrata in campo delle ragazze è stata accompagnata da un boato che ha scosso le tribune dello stadio e così per tutta la partita: ogni punto era celebrato con un calore ed un affetto davvero sorprendenti.
Più che la partita in sé – come dicevo dall’esito piuttosto ovvio – colpisce l’esperienza in quanto tale, il brivido che ti sale sulla pelle al canto dell’inno nazionale, il tripudio per ogni palla conquistata e la delusione per ogni occasione mancata. Confesso che, essendo poco abituato a certi eventi, assistere alla partita della nazionale è un’avventura che toglie il fiato, che coinvolge, o, meglio, che travolge, conquista, appassiona ed incanta. Il tutto anche grazie alla studiata strategia che accompagna l’evento: a me, candido neofita, ha sorpreso l’accompagnamento musicale e l’animazione che hanno punteggiato lo scorrere della partita. Ogniqualvolta il ritmo del gioco veniva interrotto, scattava immediatamente il jingle, la strofa del tormentone estivo, il motivetto di successo e, quando la pausa si faceva un attimo più lunga, ecco intervenire l’animazione con canti, balli, giochi e ole. Il risultato complessivo di questa vivacità è stata l’immersione completa nel clima sportivo, la partecipazione esclusiva ed illimitata a quanto stava accadendo, un tuffo talmente coinvolgente che non lasciava spazio ad altro pensiero o preoccupazione.
Tornando a casa ragionavo su una cosa: ma non è forse questo il modello ed il paradigma di ogni nostro divertimento? Non è forse vero che, nella nostra cultura, divertirsi significa saturare, riempire ogni spazio, eliminare ogni vuoto, colmare ogni istante disponibile di cose, persone, percezioni ed eventi? Chi ha un minimo di frequentazione con le giovani generazioni riconoscerà che questo è un tratto davvero distintivo della loro voglia di evasione e svago, anzi è ciò che esattamente distingue il tempo ordinario da quello del passatempo, ossia il senso di pienezza, abbondanza ed estremo godimento.
È singolare questo tratto, ma allo stesso tempo talmente abituale che stentiamo a riconoscerlo e comprenderlo. Viviamo tutti in un’epoca che detesta il vuoto, il silenzio, l’attesa, la mancanza, la privazione, la lontananza e la perdita. E questo non solo in una partita di pallavolo (dove tutto sommato la cosa è comprensibile) ma in ogni aspetto della nostra vita, in ogni legame, in ogni relazione, in ogni frequentazione e amicizia, amore ed affetto. Sentiamo il bisogno di un’eterna presenza, di un esserci permanente, persistente, costante, talvolta addirittura ossessivo.
Siamo mossi dalla convinzione che ci sia vita, gioia e consolazione solo quando ogni vuoto è riempito, ogni silenzio colmato, ogni lontananza compensata, ogni pausa eliminata. Inutile dire che i social e gli smartphone alimentano questo nostra pretesa di presenza, questa nostro terrore del nulla: tutto e tutti sono sempre a portata di mano, alla distanza di un tocco, immediatamente raggiungibili, collegati, in presa diretta.
Chissà da dove nasce questa nostra ossessione per la saturazione di ogni cosa… Forse dalla paura di restare soli con se stessi? Forse dall’angoscia che proveremmo trovandoci soli con i nostri sentimenti ed i nostri pensieri? O forse ancora dallo smarrimento che temiamo di sperimentare quando avvertiamo l’esigenza vitale di dare un senso al nostro tempo, un significato ai giorni della nostra vita, una direzione al futuro? Intendiamoci: la gioia ha a che fare con la pienezza, l’appagamento e l’abbondanza. Non discuto questo. Mi chiedo però se assumere la pienezza come unica condizione per celebrare la vita non tradisca in qualche modo la bellezza e la profondità della nostra umanità, la quale, a dispetto delle nostre pretese infantili, è fatta anche di assenze, lontananze, vuoti e silenzi. Riconoscere ed onorare la sensatezza, insieme alla gioia e alla pienezza, anche dei vuoti e delle assenze, potrebbe fare di noi uomini più sereni e riconciliati.
Pubblicato su Il Cittadino del 23 Agosto 2023









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