La parola “globalizzazione” ha assunto un ruolo centrale per comprendere l’attuale contesto socio-culturale: essa è divenuta un criterio interpretativo dei nostri tempi, una lente senza la quale faremmo fatica a capire dove sta andando il nostro mondo. Essa è un termine polisemantico in quanto offre significati diversi – benché omogenei – a seconda del contesto in cui viene utilizzato. La globalizzazione allude alla circolazione delle merci e dei beni capaci di superare gli stretti confini nazionali o regionali; essa indica anche una omogeneizzazione dei gusti, dei linguaggi e delle culture, dal momento che ci permette di vivere in un unico villaggio globale; denota anche una crescente flusso, quasi istantaneo, delle notizie, in modo tale che qualsiasi cosa accada, anche nell’angolo più remoto del pianeta, arriva in pochi secondi sul nostro cellulare; essa ha infine – ma la lista potrebbe continuare ancora – accresciuto la consapevolezza della interconnessione che lega ogni popolo del nostro pianeta: quanto accade anche a migliaia di chilometri da casa, tende ad influenzare e condizionare anche la vita di ciascuno di noi.
La parola globalizzazione può essere utilizzata anche per decifrare il nostro ambiente culturale, quell’insieme di valori, norme, convinzioni e pensieri in cui siamo tutti immersi e attraverso i quali ci costruiamo come soggetti liberi ed autonomi. In questo senso strettamente culturale, globalizzazione significa una cacofonia di voci e di pensieri. È questa la tesi che il prof. Petrosino, filosofo e docente alla Cattolica, ha cercato di sostenere qualche sera fa nel suo intervento all’oratorio di Sant’Angelo Lodigiano. La globalizzazione culturale, secondo lo studioso, si esprime nel fatto che a tutti è concesso diritto di parola, in una democrazia del pensiero che i social e la rete esaltano ed enfatizzano. Fino a pochi decenni fa, a pochi era riconosciuto il diritto di una parola autorevole e significativa: il politico, il medico, il prete, il giornalista, lo scienziato, lo studioso e pochi altri. Oggigiorno tutti si sentono autorizzati a esprimere la propria posizione su qualunque argomento, creando in tal modo una cacofonia di voci in cui l’opinione ed il parere si mescolano e si confondono con il pensiero e la riflessione.
Nel flusso informativo in cui siamo tutti immersi in fondo vige la regola che “uno vale uno”: una voce è identica all’altra, con il medesimo peso, la medesima credibilità ed autorevolezza. È sufficiente navigare dieci minuti su Facebook per rendersi conto che su qualunque tema è un affollarsi di parole, di convincimenti, di ragionamenti, senza che alcuno senta l’esigenza di fondare il proprio pensiero, confrontarlo con quanto in duemila anni di storia è già stato studiato, senza alcun vincolo di coerenza, razionalità o competenza. Tutti parlano ditutto, senza limiti, senza vincoli, senza ragioni. Si passa tranquillamente dai temi esistenziali a quelli etici, da quelli politici a quelli economici in un vociare che tende a trasformarsi in un rumore di fondo confuso e disorientante. Qualche studioso descrive questo fenomeno come la crisi del principio di autorità: mancando una gerarchia dei saperi e delle competenze, ciò, per esempio, che dichiara Fedez sui social e quanto scrive Nietzsche hanno esattamente lo stesso valore, la stessa valenza e importanza. È questo il contesto in cui si trova ad operare chiunque voglia fare educazione, chiunque si trovi nella condizione di tramandare un sapere che le generazioni precedenti ci hanno consegnato. È questa l’humus in cui devono sopravvivere genitori, insegnati, educatori, catechisti, preti, maestri e coloro che sentono la responsabilità della formazione delle nuove generazioni, che cercano di fornire loro quell’abc culturale necessario per la costruzione della propria identità. Siamo onesti: è un compito immane, impari e titanico, giacché esso esige la capacità di individuare, nel generale “starnazzare” dei più, parole che sappiano dare significato e consistenza alla propria vita. È un compito davvero ingrato quello di coloro che, in questa situazione di fluidità culturale ed esistenziale, cercano di mettersi al servizio dell’uomo: in un contesto in cui i concetti di giusto e sbagliato, sopra e sotto, buono o cattivo, nobile o infimo, restano parole che si possono tranquillamente interscambiare, è una scommessa impegnativa il tentativo di indicare una direzione, un senso, una prospettiva di vita buona.
Pubblicato su il Cittadino del 16 aprile 2024 (QUI)









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