braccialetti di lana

Siamo usciti con dei piccoli braccialetti di lana colorata legati al polso come segno di quella rete di umanità in cui siamo tutti radicalmente inseriti. Siamo usciti con quel piccolo segno esteriore al nostro braccio ma sono convinto che la novità principale fosse il cambio di prospettiva che l’incontro con Gabriele Del Grande e Mohamed Ba ha suscitato in ciascuno dei partecipanti alla serata “Liberi di partire, liberi di restare” organizzata dalla rete “Umanità Lodigiana”.

Si è parlato di migrazioni, di flussi di popoli, di gente che lascia la propria terra e si sposta in un altro paese o addirittura in un altro continente. È un fenomeno storico antico: da che mondo è mondo l’uomo ha sempre abbandonato la propria terra per andare altrove. Ma il fenomeno migratorio attualmente in corso ha origini più recenti, quando negli ultimi secoli la ricca Europa ha avuto fame di braccia per le proprie economie e attingeva a piene mani dalle colonie la forza lavoro che non riusciva a garantire diversamente. A partire dalla fine del secolo scorso, tuttavia, questa “risorsa” diviene un problema, sicché, attraverso una rigida politica dei visti, si iniziarono a filtrare gli accessi, a distinguere tra chi aveva il diritto di entrare e chi no. Complice le teorie scientifiche delle razze mai superate realmente, il confine venne definito in base al colore della pelle: le popolazioni bianche dell’est Europa ebbero accesso alle nostre società mentre quelle afro-asiatiche no.

Questa politica degli accessi, tuttavia, non fermò gli arrivi sul suolo europeo; semplicemente rese illegali e pericolosi gli attraversamenti dei confini. Un dato, citato da Del Grande, mi pare particolarmente eloquente a riguardo: mentre nel giugno del 2019 il governo italiano intraprendeva un braccio di ferro con la Sea-Watch 3 (capitanata da Carola Rackete) per l’accoglienza di una cinquantina di richiedenti asilo, nello stesso periodo circa 100 mila immigrati arrivavano legalmente negli aeroporti e nei porti della comunità europea. Nonostante una certa narrazione nazionalista, gli arrivi, legali ed illegali, proseguono e testimoniano che il fenomeno delle migrazioni rappresenta un elemento strutturale della nostra epoca e non un dato emergenziale o episodico. Pensare di impedire o negare il diritto degli uomini di spostarsi è un atto non solo contrario alla nostra civiltà giuridica ma è pure una speranza illusoria poiché un movimento di tali dimensioni ammette due sole opzioni: scegliere di gestirlo o subirne passivamente le conseguenze.

In fondo – questo mi pare il cuore del messaggio di Gabriele – cambiare il punto di vista sulle migrazioni non significa assumere un atteggiamento buonista o arrendevole, bensì aprire gli occhi e riconoscere la realtà per quelle che essa già è. Trentacinque milioni di immigrati vivono stabilmente nelle città europee senza alcun progetto di rientro nei paesi di origine. Nel 2040 la popolazione europea rappresenterà il 5% della popolazione mondiale ed il cuore dello sviluppo economico del pianeta si sposterà verso le aree del sud del mondo che ci sorpassano ampiamente per crescita economica, demografica e sociale. Guardare con occhi diversi al fenomeno migratorio significa riconoscere che siamo già una società multietnica e multiculturale e per chi avesse ancora dei dubbi è sufficiente visitare una delle mille classi elementari delle nostre scuole. L’Europa bianca, cristiana, centro del mondo civilizzato non esiste più, e da anni: nutrire certe narrazioni nazionalistiche e populistiche non solo è pericoloso e dannoso ma è anzitutto segnato da un tratto di irrealtà.  Quell’Europa e quell’Italia non esistono più e prima sapremo trovare parole nuove per raccontare quello che accade, prima sapremo gestire il presente e preparare il futuro.

Dopo settant’anni esatti dalla chiusura di Ellis Island, l’isolotto davanti a New York dove passarono dal 1892 al 1954 circa 12 milioni di immigrati (tra cui 4 milioni di italiani), il popolo americano guarda a quel luogo con orgoglio e gratitudine. Si calcola che circa il 40% degli americani abbiano avuto un bis-nonno entrato in America attraverso quel pezzo di terra. Quegli immigrati, con il loro lavoro e la loro dedizione, contribuirono a rendere il Nuovo Mondo ricco e fiorente, sviluppato e all’avanguardia. Eppure, a quei tempi essi, italiani e popoli del sud Europa in primis, erano la “feccia della terra”, gli ultimi tra gli ultimi, i più disprezzati, detestati e reietti. Chissà che, quando saremo capaci di guardare al fenomeno migratorio da una diversa prospettiva storica, anche le future generazioni italiane guarderanno con i medesimi sentimenti a coloro che sono sbarcati a Lampedusa, Cipro, Malta o Ceuta e Melilla.

Serve una nuova narrazione, capace di raccontare una storia diversa e assegnare un significato alternativo a quello che accade, uscendo dal recinto costruito attorno alle parole “invasione, paura, minaccia, superiorità culturale, pericolo ed emergenza”; servono parole che sappiano raccontare questi eventi non come la fine “del mondo” ma come l’esaurirsi “di un mondo” che abbiamo conosciuto e la nascita di un mondo nuovo; servono racconti capaci di aprire al futuro, di abitare il domani, di spiegare un avvenire che oggi riusciamo solo timidamente ad intravedere.

Pubblicato su il Cittadino del 23 aprile 2024 (QUI)

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