Come si può convivere con una tragedia che avviene a pochi metri da casa propria? Come si riesce a restare indifferenti di fronte a un eccidio che si consuma accanto a noi, nei luoghi stessi in cui viviamo?
Uno dei drammi più inquietanti di quanto accade oggi in Israele non riguarda solo le centinaia di vittime palestinesi che ogni giorno perdono la vita, ma anche l’apparente insensibilità dei loro vicini israeliani, che sembrano ormai assuefatti a ciò che accade al di là del confine.Certo, non mancano ampie aree di dissenso verso la politica aggressiva di Netanyahu. Ma, come hanno osservato diversi acuti commentatori israeliani, quella protesta appare più concentrata sulla liberazione degli ostaggi che sulla solidarietà verso il popolo palestinese oppresso.
È già accaduto nella storia — pensiamo alla Shoah — quando non è solo la violenza a ferire, ma anche lo sguardo che si volta altrove. È il momento in cui una società sceglie, consapevolmente o meno, di non voler sapere. Un meccanismo complesso, difficile da decifrare, che si muove su un labile confine tra politica, psicologia delle masse ed etica pubblica.
Il sociologo britannico Stanley Cohen ha cercato di esplorare a fondo questo fenomeno, dedicandogli uno dei suoi studi più lucidi e inquietanti, States of Denial (2001).
Cohen parte da un’intuizione tanto semplice quanto spaventosa: le persone spesso sanno ciò che accade, ma agiscono come se non lo sapessero. La negazione non è ignoranza, ma un sofisticato atto di difesa. È la capacità di convivere con l’orrore senza lasciarsene toccare, di tenerlo ai margini della coscienza, come se la distanza potesse proteggerci dal dovere morale di reagire.
Nel linguaggio di Cohen, esistono diverse forme di negazione. C’è quella letterale, in cui si nega che un fatto sia accaduto. C’è quella interpretativa, che riduce la gravità degli eventi (“non è poi così terribile”). E infine la implicatoria, la più pervasiva: sappiamo perfettamente cosa accade, ma facciamo finta che non ci riguardi. È il terreno su cui prosperano le ingiustizie di massa, i genocidi, le catastrofi umanitarie.
Cohen osserva che nessuna società è immune da questo meccanismo. Lo Stato può negare, i media possono edulcorare, i cittadini possono scegliere di “non vedere troppo”. Tutti, in fondo, partecipiamo — anche solo con la nostra indifferenza — alla costruzione del silenzio. Il problema, però, non è solo politico. È profondamente umano.
Negare serve a difenderci dalla vertigine dell’impotenza: se riconoscessimo davvero ciò che accade, se lasciassimo che il dolore degli altri ci attraversasse, dovremmo cambiare. E cambiare costa. Costa in termini di convinzioni, di comodità, di pace interiore. È più facile chiudere gli occhi e convincersi che, in fondo, non possiamo fare nulla. Così, l’orrore continua a scorrere accanto a noi, normalizzato, integrato nel paesaggio del quotidiano.
Cohen scrive che le società moderne hanno perfezionato l’arte del “sapere senza sapere”. Le immagini di massacri e distruzioni circolano ovunque, ma si dissolvono nel flusso dei social, nella cronaca del giorno dopo. Ci indigniamo, certo, ma per poco. La negazione, nella sua forma più sofisticata, si chiama assuefazione. E mentre ci abituiamo a tutto, il confine tra l’umano e l’inumano si sposta silenziosamente un po’ più in là.
Forse, come suggeriva Primo Levi, il vero rischio non è dimenticare, ma smettere di sentire. “È avvenuto, dunque può accadere di nuovo”, scriveva. Ma perché non accada, dobbiamo prima riconoscere che sta accadendo. Levi conosceva bene la potenza della rimozione collettiva: quella zona grigia in cui i testimoni si riducono, gli spettatori si moltiplicano, e il male trova spazio proprio nell’indifferenza di chi non vuole vedere. Scriveva: “Molti sapevano e non volevano sapere, perché sapere avrebbe significato scegliere, e scegliere avrebbe significato compromettersi.”
La negazione è un meccanismo universale, ma non inevitabile. Ogni volta che scegliamo di non guardare, qualcuno muore due volte: la prima sotto le macerie, la seconda nel nostro silenzio. Vedere, allora, diventa un atto politico, morale e perfino spirituale. È la forma più elementare — e più difficile — di resistenza alla barbarie.
pubblicato su il Cittadino del 8 ottobre 2025









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