il prezzo della salute

La strada che da New York conduce verso il New Jersey è una grande arteria di asfalto, una distesa imponente di corsie che sembra non finire mai. Si lascia alle spalle il tunnel che attraversa il fiume Hudson e si apre verso l’interno, verso quei territori che vivono in una relazione quotidiana e incessante con la metropoli. È una strada che racconta molto più di quanto appaia a prima vista: racconta un modo di vivere, di lavorare, di concepire il tempo e, in fondo, anche il valore delle cose.

Ai lati della carreggiata si sussegue una sequenza quasi infinita di attività commerciali. Centri vendita, concessionari d’auto, fast food, grandi magazzini di casalinghi, negozi di abbigliamento, insegne luminose che promettono sconti, convenienza, immediatezza. Tutto sembra pensato per intercettare un flusso costante di persone: uomini e donne che ogni mattina si dirigono verso New York per lavorare e che, la sera, tornano verso casa. Un esercito silenzioso e instancabile di pendolari che rappresenta un bacino enorme di potenziali consumatori. È naturale, dunque, che lungo quella via sorga una concentrazione così fitta di offerte commerciali: la strada diventa mercato, vetrina continua, spazio di scambio.

Eppure, in mezzo a questo paesaggio perfettamente coerente con la logica del consumo, un dettaglio ha catturato la mia attenzione. Tra un rivenditore d’auto e un fast food, ho notato la presenza di un centro medico, in particolare un ambulatorio pediatrico specializzato in cure d’urgenza, come recitava l’insegna. La cosa mi ha colpito. Non tanto per la sua esistenza in sé, quanto per la sua collocazione: lì, esattamente lì, accanto a negozi e punti vendita, come se fosse un servizio assimilabile a tutti gli altri.

Qui la riflessione diventa inevitabilmente etica. Emmanuel Levinas ci ha insegnato che il volto dell’altro non è mai riducibile a oggetto, funzione o prestazione. Il volto è ciò che ci interpella prima di ogni scelta, prima di ogni contratto, prima persino della nostra libertà. È un appello che ci rende responsabili prima ancora che consapevoli. La collocazione di un ambulatorio medico in mezzo alle attività commerciali sembra invece suggerire l’opposto: che anche la vulnerabilità dell’altro possa essere integrata nel circuito dello scambio, che la cura possa diventare un servizio tra i servizi.

Ma questa trasformazione non è soltanto etica; è anche politica nel senso più profondo del termine. Hannah Arendt ci ha ricordato come la modernità tenda a ridurre l’uomo a funzione, a ingranaggio di processi più grandi, svuotando lo spazio dell’azione e della responsabilità condivisa. Nella società dominata dall’economia, ciò che conta non è più il “chi” dell’uomo, ma il che “cosa”: produttore, consumatore, cliente. In questo orizzonte, anche il malato rischia di perdere il suo volto politico e umano, diventando semplicemente un caso da gestire, una prestazione da erogare.

Agli occhi di chi proviene dalla tradizione europea, questa normalità appare come una frattura silenziosa. Non perché manchi la cura, ma perché cambia il suo statuto simbolico. Non è più risposta a un appello, ma servizio acquistabile. Non nasce dall’incontro con il volto fragile dell’altro, ma dalla sua traduzione in cliente. In questo senso, la logica del mercato neutralizza ciò che per Levinas è originario e ciò che per Arendt è essenziale: la responsabilità e lo spazio comune dell’umano.

Ripensando a questa scena, emerge con maggiore chiarezza il valore dello Stato sociale europeo. Spesso si afferma che l’Europa sia in declino, soprattutto se misurata in termini di potenza geopolitica e militare. Ma Arendt ci ha ricordato che la grandezza di una civiltà non si misura soltanto nella forza, bensì nella capacità di costruire uno spazio in cui gli uomini possano apparire come esseri umani, e non solo come funzioni. La sanità universale è uno di questi spazi.

Forse, abituati come siamo a vivere dentro queste istituzioni, fatichiamo a percepirne la portata. Ci appare normale ciò che in realtà è il risultato di una scelta radicale: affermare che la vita umana non può essere interamente assorbita nei meccanismi dello scambio. In un mondo che tende a trasformare tutto in valore economico, l’idea europea di sanità universale continua a testimoniare, silenziosamente, che non tutto è vendibile. E che la civiltà inizia proprio là dove il volto dell’altro viene riconosciuto come indisponibile.

pubblicato su il Cittadino del 16 dicembre 2025

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