Come alcuni sostengono, viviamo in una società senza padri, una società che tende a rimuovere il debito di dipendenza verso chi ci ha preceduto e che sperimenta un ripiegamento narcisistico su se stesso, come se l’orizzonte della vita fosse tutto qui, tutto ora, tutto adesso. Eppure confesso di non conoscere compito più straordinario – e allo stesso tempo più esigente – di quello di essere padre: sei perennemente dentro un frullatore, trascinato su montagne russe che ti fanno sperimentare l’ebbrezza dell’altezza e la nausea della discesa. Essere padre è un compito “ingrato”, proprio perché la gratitudine è esperienza rara – ma meravigliosa – del suo lavoro.
Mi piace pensare alla parola “padre” in un senso estensivo ed inclusivo: non è padre solo quello biologico, adottivo o affidatario, ma colui che assume la vocazione di introdurre altri alla vita. È padre chi sente il compito di aprire una strada all’altro, per indicargli una direzione e per tracciare un cammino. Padre è chi, con la propria vita, sa generare altre vite. È colui, come sostiene lo psicanalista e filosofo francese Lacan, che sa custodire il desiderio del figlio e, per fare questo, è capace di fargli sperimentare l’esperienza del limite. Parrà strano, ma il padre è colui che ti fa capire che non sei tutto, che non puoi tutto, che il tuo senso di onnipotenza è chiamato a misurarsi con il principio di realtà. È proprio questa “parola del padre” – per usare un’espressione cara allo studioso francese – che rende il suo mestiere così complicato: egli sa dire i no per proteggere il desiderio del figlio, sa tracciare un limite ma solo per evocare l’altrove, sa abitare il “qui” proprio per indicare l’oltre.
Siamo onesti: essere padri è un compito con cui oggi pochi sono disponibili a fare i conti, preferendo alimentare un senso di libertà ed indipendenza che spesso scivola nel capriccio. La trincea del padre è infatti un luogo scomodo, esposto continuamente alle intemperie e sempre vulnerabile agli attacchi esterni e al fuoco amico. La sua è più un’arte che una professione, un mestiere per il quale non esistono ricette né libretti di istruzione. Assomiglia molto alla navigazione in mare aperto, quando la bussola è rotta e il cielo oscura, a tratti, il chiarore della luna. Si naviga a vista, a istinto, mettendo in gioco quel poco di esperienza che si è maturato.
Si diventa padre – se lo si diviene mai pienamente – un po’ alla volta, per gradi, attraverso infiniti errori, facendo i conti ogni giorno con la propria inadeguatezza, i propri fallimenti e le tante cadute. Si diventa padre dal giorno in cui si guarda negli occhi il bebè appena nato, il bambino che si è incontrato o il ragazzo di cui ci si prende cura e si vede in lui un figlio. Da quel momento risulta evidente che la felicità passerà attraverso la sua realizzazione e che lo scopo della vita sarà generare l’altro alla vita.
Essere padre ha a che fare con quella singolare abilità che consiste nell’aiutare qualcuno a diventare se stesso, permettendogli di essere uomo, uomo a sua misura e non secondo attese o aspettative altrui. Perché, in fondo, il compito vero di ogni padre è quello di diventare inutile. Singolare eterogenesi dei fini: si raggiunge lo scopo proprio quando si resta senza scopo e quando il soggetto della cura può tranquillamente camminare da sé.
È forse proprio per questo che essere padri oggi è tanto arduo e misconosciuto: chi è padre non si è scelto la parte più popolare nel dramma della vita. Gli è concesso di preparare la scena, di accendere le luci e sistemare i costumi. Ma quando lo spettacolo della vita va in scena, al padre è concesso solo il ruolo dello spettatore che osserva, da dietro le quinte, la recita. Eppure credetemi: è il solo ruolo che merita davvero di essere interpretato.