La Pasqua di quest’anno mi hai insegnato una cosa: il valore della resa. È una lezione dura da apprendere ed ancora più difficile da praticare.
Ci hanno sempre insegnato a resistere ai problemi, alle situazioni difficili, ai legami problematici e alle varie sfide che la vita ti mette davanti. La resistenza, talvolta, è percepita come l’unica strategia praticabile per affrontare i piccoli e grandi problemi.
La vita poi lentamente, ma con mano ferma, ti insegna che vi è una soluzione diversa per gestire quello che ti accade: sperimentare una resa incondizionata verso le cose. Credetemi, non è una cosa facile né pacifica la resa; non è rinuncia, apatia o fuga. Essa ha più a che fare con il valore dell’obbedienza che siamo tutti che siamo chiamati a maturare verso le cose che sfuggono al nostro controllo. La resa afferisce a quella dimensione di passività che ci abita, a quel senso del limite che struttura la nostra vita.
L’esperienza della resa assomiglia a quella dell’accoglienza, della docilità, della disponibilità sincera verso le cose e le persone. Arrendersi non è cedere, né acconsentire o rinunciare, ma abbracciare, pur con sofferenza, quello che eccede il nostro dominio e la nostra presa. La resa è lo stile di chi onora la concretezza e la irriducibilità delle cose e celebra la loro intrinseca alterità rispetto a chi siamo e a cosa possiamo.
L’esperienza di essere “inchiodati” alla realtà della nostra vita, di essere legati a quel “patibolo”, che talvolta pare uno strumento di morte, non è cosa da anime candide. Accogliere questa “crocifissione” come una grazia indesiderata, ma comunque una grazia, beh non è proprio un giro in giostra.
Giunge il tempo in cui – sarà l’età, sarà la maturità o la fatica – comprendi che la resa suona come un lieto annuncio, come una via d’uscita, un opzione da considerare.
La differenza sta tutta qui: assumere ciò che la vita mette sul tuo cammino indipendentemente dalla tua volontà come una violenza, una minaccia o un attacco alla volontà narcisistica di dominio; oppure accoglierla come qualcosa da offrire, qualcosa a cui abbandonarsi e a cui obbedire. È la differenza che passa tra la condanna ed il sacrificio.